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Quando l’idea si fa arte
Nel nuovo, incantato Diamanti di özpetek, il mondo delle sartorie
Giovanni Gavazzeni
La burbera proprietaria della Sartoria Canova (Luisa Ranieri) domanda a bruciapelo alla novellina al primo impiego: «Hai mai sentito parlare di Piero Tosi?». Per entrare nella sua fucina del costume – il «vaginodromo» secondo la definizione fulminante di una delle interpreti, Geppy Cucciari – non contano i titoli: basta una parola magica, «Piero Tosi». Nome che riassume il lavoro di un artista caparbio e riservato, ideatore dei costumi per il cinema, il teatro e i melodrammi di Luchino Visconti.
Abiti che riflettevano uno studio profondo dell’epoca esprimendo la personalità dell’attore in funzione del personaggio. E i suoi abiti sono leggenda: Maria Callas agile e diafana come la ballerina Taglioni in Sonnambula, Anna Magnani cencicata e tragica in Bellissima, Claudia Cardinale che volteggia nel walzer con il Principe di Salina per il grande ballo del Gattopardo, Silvana Mangano nel fulgore aristocratico-romano di Gruppo di famiglia in un interno, Romy Schneider fragile porcellana in Ludwig.
Come i lari domestici degli antichi romani, alcuni autentici costumi femminili di Piero Tosi per il Gattopardo e Ludwig osservano i protagonisti dell’incantevole film Diamanti di Ferzan Özpetek, che nella sartoria Canova idealizza la maison sartoriale di Umberto Tirelli e Dino Trapetti a Roma.
Attorno a «Tirelli» è fiorita una costellazione d’ingegni preclari: l’arte di costumisti che si chiamavano Piero Tosi, Danilo Donati, Marcel Escoffier, Pier Luigi Pizzi, Maurizio Millenotti e gran dame, Lila De Nobili, Anna Anni, Gabriella Pescucci, Milena Canonero, fino alla nouvelle vague maschile, discendente dalla scuola di Tosi, Alessandro Lai (già collaboratore storico di Özpetek per sei film, recente motivo d’attrazione nell’accattivante siculo-saga Leoni di Sicilia), Massimo Cantini, Carlo Poggioli e Stefano Ciammutti, il costumista di Diamanti, che rende «non datati», «non anticati», i tessuti impiegati per ritrovare il clima dell’Italia del 1974, dove si svolge il film corale di Özpetek.
Sembra un fatto secondario, ma troppo spesso vediamo al cinema e in teatro, negli ormai scontati traslochi temporali dell’azione, fra drammaturgie sovrapposte alla bell’e meglio, più o meno indebite, la tendenza a presentare coristi e personaggi vestiti con abiti di tutti i giorni che danno l’impressione di essere a una prova senza costumi.
Una tendenza che umilia la tradizione delle grandi sartorie teatrali, le quali anche quando si occupano di un abito contemporaneo, lo hanno studiato e «vissuto» fino in fondo (si narra che Tosi dormisse con i tagli che sceglieva per carpirne ogni aspetto più segreto).
Un mondo di competenze magiche, quasi a sé stante, dove era difficile che i suoi abitanti ti lasciassero penetrare magari per rubare qualche segreto. Un mondo dove l’abito faceva il monaco: quanto importanti sono i costumi di Tosi nella leggendaria trasformazione dell’atletico americano Burt Lancaster nell’amaro Gattopardo Principe di Salina!
Tra i tanti pregi dell’incantato film di Özpetek, non può essere trascurato il virtuosismo di impiegare, e bene, così tante attrici – Ferzan è Sultano di uno splendido serraglio: Vanessa Scalera si prende la scena senza nemmeno dare l’impressione di farlo nella parte della costumista premio Oscar strapazzata dal regista di turno (Stefano Accorsi); basta una battuta per dare luce alla disinibita Fausta (Geppy Cucciari), all’esperta laboriosità della caposarta Nina (Paola Minaccioni), al pudore della vedova ricamatrice Eleonora (Lunetta Savino), alla leggerezza della Tintora (Nicole Grimaudo), alla timida stanchezza della modista Paolina (Anna Ferzetti), alle complementari sorelle Luisa Ranieri e Jasmina Trinca, volitiva workaholic la prima, fragile assente la seconda.
E non rinunciando a infilare nel mosaico corale altre «tessere» speciali con la sussurrata grazia della zietta Milena Vukotic, e la cuoca-ambasciatrice di saggezza Silvana (Mara Venier), dottoressa del cuore che usa il mestolo come uno stetoscopio. Ci sono anche i maschi: i modelli, i facchini, il tuttofare, il fiore non colto che ritorna, il marito violento e quello comprensivo, ma sono «aggettivi» del cosmo femminile che Özpetek muove poeticamente come spolette di un prezioso tappeto.
Fra il duro lavoro e le storie delle sue donne, Diamanti racconta un passaggio fondamentale, quando l’«idea» di un costume (il bozzetto) diventa «arte», oltre alla distanza che corre fra i disegni presentati dalla costumista premio Oscar di turno e la realizzazione, merito delle mani meravigliose delle tagliatrici, delle modiste, delle cucitrici, delle ricamatrici che animano le sartorie.
E quanto le intermittenze, isteriche o geniali, dei registi squadernino nel bene e nel male il lavoro delle tenaci Penelopi. Meccanismi segreti a volte risolti con «trucchi» celebri come quello delle carte delle caramelle che diventano applicazioni preziose. Nel mondo incantato delle sartorie teatrali è possibile ancora il miracolo della pastina glutinata che si trasforma in oro!