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Bibliografia

Ben Pastor, La fossa dei lupi, Milano, Mondadori, 2024


Come salvare Renzo e Lucia dopo I promessi sposi

L’ultimo romanzo di Ben Pastor è un thriller che riparte dal capolavoro di Alessandro Manzoni - L'intervista
/ 26/08/2024
Blanche Greco

Ogni epoca ha i suoi misteri e i suoi detective e nessuno lo sa meglio di Ben Pastor che argutamente nei suoi libri, crea gli uni e gli altri, a cominciare dal suo nome. Verbena Volpi Pastor, archeologa e per più di trent’anni docente universitaria negli Stati Uniti, risolse le difficoltà della pronuncia americana legate al suo nome tagliandolo in due e creandosi così un alter ego letterario «baffuto» e adesso famoso. Infatti dopo una serie di racconti polizieschi per importanti riviste americane del settore, è diventata una nota scrittrice di best seller e, lasciato il Vermont, vive attualmente nell’Oltrepò Pavese dedita alle sue storie gialle e ai suoi detective. L’ultimo di questi temerari investigatori ha una missione quanto mai pericolosa: salvare Renzo e Lucia i protagonisti de’ I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, di nuovo al centro delle fatalità del destino quando Bernardino Visconti, l’Innominato, viene assassinato sui monti sopra Lecco da ignoti, e loro, che si erano salvati dalle sue grinfie per miracolo divino, finiscono nel mirino della polizia. Molti sono gli intrighi dell’ultimo romanzo di Ben Pastor, La fossa dei Lupi, continuazione ideale del capolavoro Manzoniano e affresco storico affascinante e godibile che inanella storie, colpi di scena e personaggi con un linguaggio raffinato e ironico. Abbiamo incontrato Ben Pastor a Firenze in occasione della manifestazione le Piazze dei libri dove ha presentato La fossa dei Lupi e l’abbiamo intervistata.

Ha avuto qualche dubbio prima di decidere di affrontare Alessandro Manzoni e creare un thriller dal suo romanzo più famoso?

Amo le sfide e anche se ero conscia delle difficoltà di questa impresa, mi sosteneva il ricordo del piacere provato quando da ragazzina, avevo letto I promessi sposi. Inoltre in questi ultimi anni c’è chi vorrebbe togliere lo studio di questo romanzo dalle scuole italiane perché lo ritiene antiquato e difficile per i tanti ragazzi stranieri che adesso le frequentano: una vera sciocchezza. Già siamo una nazione a rischio dell’anima e dell’identità, perché non condividere con chi viene da noi questo romanzo che ci racconta, in quanto italiani? In fondo se immaginiamo i personaggi di Manzoni in abiti moderni ecco che I promessi sposi, diventa un affresco dalla portata universale e sin troppo attuale!

Allora niente è cambiato dal 1628 ad oggi?

Tutto è cambiato, ma forse non abbastanza. I «Bravi» sono una banda criminale e il «ratto» a fini abietti come lo stupro, c’è forse più di trecento anni fa. Stiamo ricostruendo una sorta di società ingiusta e prevaricatrice, cosa che nel 1600 era normale, come racconta Manzoni.

Chi dice che questo libro non parli più di noi?

Lei di solito scrive in inglese, ma stavolta ha dovuto tornare alla lingua dei suoi padri?

È stato proprio così. Manzoni – che Mary Shelley tentò per prima, di tradurre in inglese per poi concludere che «non poteva essere fatto» – scriveva con questo ampio e spiritoso ritmo di sestine che per me è stato una sorta di melodia ispiratrice, soprattutto per le conversazioni tra i personaggi. Milano all’epoca era sotto agli spagnoli e perciò tutto si svolgeva nell’ambito di una cultura italo-spagnola che ancora adesso fa un po’ parte della mia famiglia, grazie a un passato di matrimoni misti di cui si trova traccia anche nel linguaggio famigliare. Io volevo rappresentare anche linguisticamente, in maniera filologica, quello che Manzoni aveva fatto, per dare un seguito credibile alla vita di «quei due poveretti», come li chiamava lui che era un aristocratico e poi uno scrittore.

A condurre le indagini è il giovane luogotenente di giustizia Diego Antonio de Olivares, che ci riserva più di una sorpresa in una Milano seicentesca che lei ha dovuto ricostruire?

Il capitolo ricerche è stato vasto, emozionante e faticoso. Mi ci sono voluti un paio d’anni per conoscere il diciassettesimo secolo, «el siglo de oro» per gli spagnoli e per «trovare» la Milano, seicentesca che non esisteva quasi più già agli inizi del 1900. Persino le chiese, duomo compreso erano state rimaneggiate. Perciò ho dovuto cercare le antiche mappe e le descrizioni dei luoghi dell’epoca. Mi è stato prezioso un ponderoso testo svizzero di cartine del cinque-seicento legate alla guerra dei trent’anni, alle guerre di religione in Svizzera, ma anche con la Francia, e non solo. E poi ho riletto Lope de Vega, famoso letterato spagnolo dell’epoca, e una moltitudine di piccoli libri pubblicati in Spagna sul secolo d’oro e dove ho trovato le informazioni più bizzarre: sulla moda, i tessuti, i colori, le fogge degli abiti, e poi le superstizioni, la religione nonché il sistema giuridico e poliziesco dell’epoca, dove la pazienza dell’investigatore e la tortura applicata regolarmente, supplivano alla mancanza di tecnologie e moderno sapere, come il DNA.

Il suo romanzo conquista anche per la vivacità delle descrizioni, dettagliate e realistiche, ma cosa ha scoperto nelle ricerche, che cosa l’ha stupita di più?

Ad esempio la diffusione all’epoca del «Buon Dormire», rimedio che conteneva oppio in modo massiccio e veniva usato per il «malfrancese», ossia la sifilide, ma anche per stordire le donne da conquistare contro la loro volontà. Oggi la chiameremmo «droga dello stupro». Mi ha sorpreso anche il modo d’intendere il peccato, all’epoca considerato più grave, o più leggero dalla religione a seconda della casta del peccatore. C’era chi poteva divorziare, separarsi, fare una vita libera, e risposarsi subito dopo il funerale del coniuge, ma per il popolo era tutt’altra storia. Quanto alle donne, oltre alle «monacate per forza» esistevano «le pericolanti»: donne senza marito, né fratelli; o orfane, che finivano di forza nei «depositi», a cucire e ricamare per l’aristocrazia sperando che qualcuno sposandole, le togliesse di lì. Mentre le donne ricche potevano diventare delle studiose colte e sapienti come la mia Donna Polissena.

È il suo alter ego nel romanzo?

Vorrei essere attraente e giovane come lei! Ma in realtà è quel tipo di donna che, come dice Olivares: «Sa chi è.» Lei ci è arrivata presto, molto prima di me che ho avuto bisogno di anni e anni. Comunque ci si arriva sempre. Ognuna di noi, in fondo, «sa chi è».

Attraverso i suoi personaggi maschili lei racconta con gusto come si corteggia, si fa carriera, o si cade in disgrazia. Sono gli uomini i suoi preferiti?

Olivares, il mio investigatore è giovane, intelligente e puro di cuore e, in quel 1628, in cui Milano sta uscendo dai lutti della peste, ci fa da guida tra galantuomini e farabutti dove c’è chi smania per feste e grandezze, e chi sogna solo un piatto di zuppa. Ma è vero, con i personaggi maschili mi diverto, sono spesso più facili da capire, hanno meno autodifese delle donne e possono essere sbucciati come frutti. Poi ci sono le donne, croce e delizia di Olivares a cominciare da Donna Sebastiana, la madre.

Diego Antonio de Olivares è il suo terzo detective, qual è il suo preferito?

Il più famoso è sicuramente Martin Bora, è stato il primo e attualmente sto scrivendo una delle sue avventure. Ma c’è anche Elio Sparziano, investigatore del IV secolo dopo Cristo, al quale sono molto affezionata. Poi viene Diego Antonio de Olivares, poliziotto, investigatore, giovane uomo attento alle regole, intelligente e moralmente onesto, insomma uno come piace a me, perciò penso che lo rivedrò presto.