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Feydeau e la meraviglia del caos

Il regista Carmelo Rifici presenta il suo nuovo spettacolo, La pulce nell’orecchio
/ 23/10/2023
Sabrina Faller

Si prova in questi giorni La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau, un classico del teatro comico, con la regia di Carmelo Rifici, curatore di traduzione, adattamento e drammaturgia insieme a Tindaro Granata, nuova produzione del LAC e del Piccolo Teatro di Milano, che vedrà la luce il 7 novembre, con replica l’8. In palcoscenico cubi bianchi e rosa e un armadio a due ante, colpiti dalla luce dei fari. Nel silenzio ovattato collaboratori e assistenti  si muovono senza rumore. Un’intervista con Rifici  schiude nuovi orizzonti sul teatro di regia,  è quasi un’avventura.

La prima domanda che sorge spontanea a chi ha seguito il percorso di Carmelo Rifici è: perché ha scelto Feydeau?
Perché a me interessano molto le sfide. Il mio percorso è sempre stato costellato da sfide letterarie e drammaturgiche, che mi hanno portato a scoprire nuove possibilità  all’interno della drammaturgia. Non mi era mai capitato di affrontare la commedia tout-court , ho messo in scena testi di Lagarce in passato, che erano commedie e in qualche maniera rubavano da Molière, da Feydeau. Però non mi era ancora capitato di  andare sulle grandi commedie del passato e, dato che mi sono accorto di  quanto in questi anni ho lavorato su testi che scavavano nella profondità degli abissi dell’ animo umano, ho pensato che anche la comicità ha i suoi abissi osservati da un altro punto di vista e che quindi era giunto per me il momento di accostarmi a quella drammaturgia per vedere se riuscivo a coglierne degli aspetti interessanti e soprattutto che possano riguardare il nostro presente.

Un esercizio di regia comica era stato anche quello da lei fatto per Gianni Schicchi e per l’Heure espagnole
Sì. Infatti siamo nel melodramma e siamo nella tradizione. Ed è proprio questo: non avevo ancora affrontato un testo di tradizione comica e questo testo appunto viene dalla grande tradizione del feuilleton e del vaudeville, della pochade francese. Ha tutti i suoi meccanismi molto precisi, molto collaudati . Faccio un esperimento all’interno per vedere se il testo ancora oggi può darci dei risvolti interessanti , chiaramente spogliandolo e destrutturandolo di quella macchina che ormai per nostra sensibilità contemporanea non ha più niente da dire. Dopo aver affrontato tanto materiale letterario molto compromettente da un punto di vista del pensiero e dell’emotività, uscire un po’ alla luce con un testo che sembra (ma solo in apparenza) non avere desiderio di nessuna profondità, è anche un modo giocoso e terapeutico di lavorare con questo mestiere su se stessi.

Si dice che la comicità di Feydeau è un meccanismo perfetto e come tale va rispettato se si vuole che funzioni. Comicità di battuta, di situazione, di gesti e movimenti, è tutto predisposto al millimetro anche nelle didascalie. Si deve rispettare? Si può non rispettare?
Noi ci creiamo delle aspettative su un testo, ma queste aspettative non si sa bene da chi siano state costruite: dalle università? Dalle accademie? Da un modo di guardare al teatro? Dal conservatorismo dello sguardo?  Io questo faccio molta fatica a capirlo. Il mio percorso viene da tutt’altro. E quindi dal mio punto di vista il tradimento più grosso rispetto a un testo è quello di pensare di portarlo come un museo sul palcoscenico, perché dobbiamo pensare che un autore quando scrive il testo, lo scrive per la propria società, con le regole di quella società e soprattutto per disarmare o distanziarsi o ribaltare quelle regole, e quindi cosa obbliga noi a fare un lavoro museale su quel testo? L’importante è che quello che si rispetti sia l’intenzionalità del testo, la vocazione di quel testo, l’obiettivo di quel testo, di quel percorso drammaturgico. E questo credo di avere abbastanza competenze per comprenderlo dopo tanti anni di lavoro. Poi se mi si chiede se la cosa funzionerà o meno, quello è il bello del teatro. Lo vedremo soltanto quando andremo in scena.   

Io penso che lui utilizzasse i testi per mettere a soqquadro. Noi parliamo della noia e il concetto di noia è un concetto potentissimo perché il problema non è che Feydeau cerchi una vita terribilmente trasgressiva. Mi ricorda tanto un altro grandissimo della comicità, che si perde nella malinconia. Si chiama Gioacchino Rossini, guarda caso anche lui costruttore di matematiche perfette

 

Dietro la facciata comica noi sappiamo che Feydeau propone una satira sociale, mettendo alla berlina proprio la società a cui appartiene. E’ un fustigatore di costumi. Immagino che ne abbia tenuto conto nel suo allestimento.
Ovvio. Quello c’è e non si può cambiare. Bisogna vedere se questo nasconde altri piani. Noi abbiamo una comicità che nasconde il piano della satira e della critica e poi c’è la regia che di solito va oltre e si chiede se il piano della satira e della critica, che è quello che viene di solito individuato dal pubblico e da chi studia un testo, invece nasconda qualcos’altro, qualcosa che sta ancora più sotto. Secondo me sì, questo testo o comunque questo spettacolo tende a mostrare qualcosa di più interessante. Il testo sfiora la morte più volte. C’è un personaggio abbastanza matto, uno spagnolo che cerca una sola cosa all’interno dello spettacolo: che qualcuno muoia o che qualcuno si porti a letto sua moglie , ma non per una specie di pruderie erotico-sessuale  che è invece la trappola in cui casca il pubblico. In realtà lui cerca la morte di qualcuno. Ma non c’è un motivo per cui questa morte viene cercata. E allora bisogna capire: qual è la cosa importante? Il desiderio di morte o come viene risolto sul palcoscenico?  E’ come viene risolto sul palcoscenico. Fondamentalmente i personaggi di questa commedia non possono morire. Si sfiora la morte ma non possono morire. Lì inizia il lavoro interessante del regista. Perché non possono morire? Perché il genere commedia lo evita o perché il genere commedia ha all’interno del suo meccanismo un antidoto al male? E’ come se facesse un’azione terapeutica, disinnescasse il male. Vuole depotenziare il male che nella tragedia trova il suo compimento come possibilità catartica, e quindi  in qualche modo, per evitare che il pubblico lo desideri, lo propone. Ma anche qui c’è il suo contrario, però il suo contrario non significa che non corrisponda a quella cosa lì. Corrisponde all’idea di trovare un’altra formula e un’altra strada per depotenziare quel male, quel desiderio diabolico che l’uomo porta dentro di sé e che la commedia coglie, scorge, e tenta attraverso un’altra strada di creare un’azione catartica, attraverso altre regole. Se prendiamo le bellissime commedie di Shakespeare, questa cosa si riesce tranquillamente a fare perché il linguaggio ce  lo racconta molto, mentre in tutti gli allestimenti di Feydeau che ho visto, Feydeau è stato dato in pasto a quelle compagnie che invece lo prendono soltanto dal punto di vista più superficiale, e non è che non sia importante la superficialità di Feydeau, è importantissima . Questo è l’esperimento che cerchiamo di fare ma senza togliere questa sua vocazione alla superficie, a non andare dentro. Ma quel dentro esiste ? Questa è la domanda che mi sono posto e quindi anche la domanda se la commedia non è altro che il ribaltamento della tragedia ma che ha le stesse identiche funzioni catartiche rispetto a quello che è il compito del pubblico, di liberarsi di qualche cosa di ombroso , che dentro c’è e che continua a suggerirci di non essere dei buoni cittadini o delle buone persone, perché il teatro ha quella funzione, liberare quel tipo di ombra.

 Uno degli aspetti che più sembrano interessarle è il linguaggio. «La pulce nell’orecchio è una farsa sul linguaggio, o meglio una farsa di linguaggi» dice lei. Che cosa intende dire?
C’è una battuta molto bella del dottore, che credo sia il personaggio più vicino a e nello stesso tempo antitetico a Feydeau, perché è meschino come tutti i dottori che Feydeau frequenterà fino alla fine della sua vita. Morirà di sifilide, quindi c’è anche un rapporto con la medicina piuttosto evidente. Camillo, che è un personaggio chiave della commedia, ha il palato perforato e non riesce a pronunciare le consonanti, può parlare solo con le vocali, e questo sembra un difetto. Il dottore viene a correggere questo difetto con un apparecchio. Dice una frase che sembra semplicemente legata a questo oggetto, all’utilizzo di questo oggetto correttore, ma in realtà è la metafora del testo, e dice: come mai a noi manca (manca a Camillo, ma utilizzo il plurale) la facoltà di parlare? Poi bisogna capire che cos’è questo parlare, perché dice, nella volta costruita all’interno dell’uomo, qualche cosa è andata persa. E’andato perso un palato a cui le parole dovrebbero rimbalzare e tornare indietro con un significato. Quando questa volta scompare –questa volta è l’ordine fondamentalmente- le parole cominciano a smarrirsi nei condotti interni dell’umanità fino a cogliere i lati più oscuri, perdersi, creare caos. La frase non è la spiegazione di che cos’è questo oggetto, è che l’ oggetto , come in tutte le grandi commedie di Goldoni -pensiamo a  Il ventaglio-  l’oggetto è al centro della commedia, l’oggetto crea il problema e l’oggetto è anche la metafora , è il simbolo incarnato della commedia . Che cos’è questo parlare però?  Questa è la domanda interessante, questo linguaggio, in cui ci fa sprofondare il dottore, sembra ricreare l’ordine –un ordine che torna alla fine, come in tutte le grandi commedie – ovvero loro si perdono, si perdono nei loro desideri , nella loro voglia di trasgressione , di una società chiusa che non trasgredisce o trasgredisce in maniera ipocrita, si perdono e poi tornano all’ordine grazie alla parola . Sembra un’uscita interessante da parte del dottore. Ma questo ordine non torna. Perché? Perché secondo me quello che ci suggerisce Feydeau è che non è la parola logica, razionale, che rimbalza dal palato, che fa tornare l’uomo all’ordine, perché proprio quel personaggio, Camillo,  che quando non ha la parola è un personaggio poetico, comico, malinconico , cioè un personaggio veramente empatico , che porta il pubblico a scoprire qualcosa anche di sé , quando poi mette l’apparecchio diventa grigio, sterile, noioso, burocratico. E solo quando riperde il palato torna ad essere empatico.  Quindi è come se Feydeau ci dicesse sì, è vero che la parola rimette tutto in ordine, ma è vero che quell’ordine è triste, è poca roba rispetto alla meraviglia del caos.

 «La vita è breve, ma mi annoio lo stesso» era solito dichiarare Feydeau.  Triste, taciturno, frequentatore di caffè, gioco d’azzardo e cocottes, del suo teatro non amava parlare. Una figura misteriosa, che sembra nascondersi dietro i suoi testi?
Io penso che lui utilizzasse i testi per mettere a soqquadro. Noi parliamo della noia e il concetto di noia è un concetto potentissimo perché il problema non è che Feydeau cerchi una vita terribilmente trasgressiva. Mi ricorda tanto un altro grandissimo della comicità, che si perde nella malinconia. Si chiama Gioacchino Rossini, guarda caso anche lui costruttore di matematiche perfette. Noi abbassiamo sempre il livello dei pensieri di questi grandi personaggi, perché? Perché sembra che quello che ci danno non abbia grande pensiero. Fondamentalmente è questo, è sempre un’apparenza. Ma che cos’è quello spleen? Perché lui parla di noia ma siamo vicini a quella noia che fra poco verrà scoperta come spleen , come malattia dell’anima. E noi dobbiamo comprenderlo da quel punto di vista: quella malattia esistenziale in cui vive Feydeau come tanti intellettuali , viene ribaltata nella sua vita attraverso il gioco d’azzardo, le donne, la prostituzione, il Moulin Rouge etc. ma quella scappatoia non è sufficiente perché è un palliativo allo spleen . Che cosa non è un palliativo allo spleen invece ed è proprio l’antidoto?  Il teatro. E’ questa la sua grandezza. E lui può fare solo attraverso il teatro quello che non è riuscito a fare nella vita, devo dire come tanti di noi.

Feydeau scrive La pulce nell’orecchio nel 1907. Siamo in piena Belle Epoque, tra pochi anni scoppierà la Prima Guerra mondiale in un’Europa che a tempo di valzer o di cancan sta danzando sull’orlo dell’abisso. Si percepisce questa tragedia incombente nel suo allestimento?
Qua entra il mio desiderio di rispettare un tabù che mette Feydeau: di sfiorare la tragedia ma non entrare nella tragedia. Questo non significa che non ci sia nel testo. Il testo ha questa potenza. Infatti, come ho detto prima, sfiora la morte più volte e lo fa però senza obiettivi politici o sociali . È  un sentore. D’altra parte  in Russia già succedono cose importanti e non è che gli intellettuali francesi non lo sapessero che stava per scoppiare il pandemonio. Il problema è che non è lì, è più un sentore. Più che legato all’attività geopolitica del mondo, quindi , è il sentore esistenziale che Feydeau avverte come una pulsione di morte che va curata. E’ questo io lo avverto oggi fortemente.

Il testo mantiene il suo impianto tradizionale. Semplicemente abbiamo deciso con Tindaro di attuare una possibilità di aprire delle porte a dei personaggi secondari che ci sembrano avere delle intuizioni interessanti, ma che per la sensibilità all’epoca di Feydeau non andavano toccati, certi personaggi femminili, le servette per esempio, che rimanevano personaggi da pochade e che invece hanno come in Goldoni delle grandi potenzialità.

 

Tutta l’opera di Feydeau è percorsa da una vena di assurdo, di surreale. Il 1907 è anche l’anno in cui muore Alfred Jarry, padre del teatro dell’assurdo, anche lui impegnato nella satira sociale sia pure in altro modo.  Nella Pulce nell’orecchio ci sono situazioni paradossali, surreali. Contaminazioni?
Tutto il surrealismo contamina questo genere di letteratura , anzi il surrealismo è la chiave. Sarebbe sbagliata la chiave della comicità da pochade o comunque quello stereotipo della pochade che noi abbiamo, perché poi se prendiamo anche le grandi pochade di Labiche riusciamo a farci un lavoro estremamente interessante oggi . La chiave è quella grande rivoluzione che simbolismo e surrealismo portano con loro e di cui poi tutta la letteratura francese non si libererà fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Dopo la brutalità della seconda guerra mondiale, Camus e Sartre diranno che non è più possibile tornare a quella cosa, è illeggibile il mondo attraverso quella chiave, siamo arrivati a un grado di zero assoluto. Ma fino a quel momento tutta la letteratura francese è contaminata dalla possibilità del grottesco che però non nasce con Apollinaire e con i surrealisti, nasce già come chiave ottocentesca di accesso alla letteratura e alla vita a cui non sono immuni nemmeno grandi autori come Victor Hugo che creano una tradizione fondamentale nella costruzione del pensiero letterario francese.

Lei cura con Tindaro Granata traduzione, adattamento e drammaturgia. Che cosa ci dobbiamo aspettare?
Il testo mantiene il suo impianto tradizionale. Semplicemente abbiamo deciso con Tindaro di attuare una possibilità di aprire delle porte a dei personaggi secondari che ci sembrano avere delle intuizioni interessanti, ma che per la sensibilità all’epoca di Feydeau non andavano toccati, certi personaggi femminili, le servette per esempio, che rimanevano personaggi da pochade e che invece hanno come in Goldoni delle grandi potenzialità. Su quello noi abbiamo attuato delle strategie drammaturgiche. Le donne sembrano avere potenzialità inespresse che abbiamo provato a potenziare. E’ una sfida , un rischio che ci assumiamo sperando che questo possa servire a dare una nuova lettura dell’uomo e del drammaturgo Feydeau.      

Mentre lei sta provando lo spettacolo è scoppiata una nuova guerra, quella fra Israele e Hamas. Sembra che ci sia un’analogia fra l’epoca di Feydeau e la nostra, perché questo danzare sull’orlo dell’abisso ci appartiene. Questa analogia si riverbera in qualche modo nel suo allestimento?
Nel 2022 ho fatto Le relazioni pericolose. Abbiamo iniziato le prove ed era scoppiata la guerra in Ucraina. Qualche giorno fa mi è stata posta la domanda ‘come è possibile che i suoi spettacoli siano legati a una guerra che sta scoppiando?’ La mia risposta è: non è il teatro che fa scoppiare le guerre. Siamo purtroppo in un momento folle dell’esistenza. Sono un pessimista e non riesco a guardare il mondo con ottimismo. Credo sia lo stesso pessimismo con cui il grande Shakespeare leggeva i suoi tempi. Siamo in uno stato di crisi dove sembra che tutto si desideri tranne che un equilibrio, tranne che la razionalità , tranne che la lucidità del pensiero. Non esiste una possibilità di dire oggi che non è attraverso la guerra che si risolvono i problemi perché non li abbiamo mai risolti attraverso la guerra, mai. Basterebbe leggere Simone Weil per capire cosa è stato il nostro mondo attraverso le guerre e che non sono le guerre a dare una risposta al mondo. Gli artisti lo percepiscono, lo sanno, e quindi molto probabilmente legano la propria sensibilità artistica a un’inevitabile lettura del mondo. Nel caso delle Relazioni pericolose, se non ci fosse stata l’uscita degli USA dall’Afghanistan, così repentina e stupida, non mi sarebbe passato per la testa di andare a prendere quel testo. Qui siamo di fronte a un’altra cosa. Ormai  ci muoviamo teatralmente con quella stessa ansia esistenziale con cui il mondo si dovrebbe muovere . Il problema è che abbiamo una politica talmente ottusa a livello mondiale che andiamo sul palcoscenico per mantenere quel poco di pensiero che ci rimane prima dell’inevitabile, anche se speriamo che l’inevitabile non avvenga. Si utilizza talmente tanto l’espressione’ terza guerra mondiale’ che quando le parole anticipano un’azione, non stanno facendo altro che mettere nel mondo il desiderio di tutti. E questo è pericolosissimo.