C’è anche una mela nelle sale ancora parzialmente intonse al secondo piano del nuovo lussuoso edificio del Kunsthaus di Zurigo, dove da alcuni giorni è possibile visitare la retrospettiva dedicata a Yoko Ono. Se l’occhio di un esperto la riconosce immediatamente come una Granny Smith, chi non ha particolari nozioni di botanica o di agronomia come il sottoscritto, non vede altro che una comunissima mela verde con la buccia lucida e brillante che al massimo, visto il contesto, può evocare nella memoria le etichette di alcuni dischi dei Beatles. Essendo ormai trascorsi più di cinquant’anni, è del tutto evidente che non può trattarsi di quella originale, tuttavia, il plexiglas consunto e leggermente ingiallito dello zoccolo su cui poggia e le lievi tracce di ossidazione della targhetta in ottone con la scritta «apple», contribuiscono ad alimentare l’illusione di trovarsi di fronte a quello stesso frutto che nel novembre del 1966, alla Indica Gallery di Londra, incuriosì così tanto John Lennon, da indurlo ad afferrarlo e a dargli un morso. Una provocazione scanzonata e istintiva, la sua, che rispondeva, con un gesto di sfida, a quella della giovane artista giapponese che aveva trasformato una banalissima mela in un’opera d’arte il cui prezzo superava le 200 sterline. Eppure quel gesto così immediato e spontaneo ebbe delle ripercussioni enormi e totalmente impreviste: non solo cambiò il suo modo di intendere la musica e il mondo, ma in qualche modo sancì anche la fine della band più famosa del pianeta. Perché è probabilmente nell’istante in cui, sotto lo sguardo furioso e incredulo di Yoko Ono, Lennon si affrettò a rimettere la mela sul suo piedistallo che fra di loro scoccò quella scintilla da cui, nei mesi successivi, nacque una storia d’amore che li avrebbe uniti indissolubilmente, se non per sempre, almeno fino alla sera dell’8 dicembre 1980. La tragica sera in cui Mark David Chapman, in un attimo di follia, decise che l’unico modo per riscattare la sua vita dal nulla in cui stava sprofondando fosse quello di sparare quattro colpi di pistola nella schiena dell’ormai ex Beatles.
In maniera neanche troppo metaforica, si potrebbe dire che in quel lontano giorno del 1966, Lennon violò l’interdetto su cui poggiava il successo planetario dei Beatles e addentò il suo «frutto del peccato». Da quel momento il mondo idilliaco e spensierato delle canzoni «leggere, anzi leggerissime», delle fan in deliquio, dei gridolini isterici e delle frangette dondolanti smise di attrarlo e si fece largo in lui una nuova consapevolezza del proprio ruolo artistico, una consapevolezza che non poteva prescindere dall’impegno politico a favore della pace, dei diritti civili e della lotta contro il razzismo.
Ma chi era, e chi è oggi, questa novella Eva che l’accompagnò in questa sua uscita dal paradiso terrestre, in questo cammino verso la maturità artistica e a cui, probabilmente non del tutto a torto, per molti anni i fan hanno addebitato la responsabilità della fine dei Beatles? È questo l’interrogativo a cui prova a rispondere la mostra del Kunsthaus, presentandoci il lavoro in gran parte sconosciuto di un’artista che, per la sua relazione con una delle più celebri popstar del Novecento, è diventata lei stessa un’icona del nostro tempo.
Nata a Tokyo nel 1933 da una famiglia di ricchi banchieri, la Yoko Ono che conobbe Lennon, a dispetto della sua figura minuta, era una giovane donna forte, consapevole e determinata e questo, in un mondo ancora profondamente intriso di maschilismo, la rendeva sospetta a molti. Se a questo aggiungiamo il fatto che dopo la sua comparsa a fianco di John emersero i primi dissapori e i primi litigi tra i quattro amici di Liverpool i cui volti sorridenti e spensierati arredavano le pareti delle camerette delle ragazzine di mezzo mondo si può capire perché la sua persona abbia suscitato in quegli anni così tanta antipatia se non vero e proprio odio.
Cresciuta negli Stati Uniti, dove la famiglia si era trasferita dopo la guerra, Yoko Ono aveva iniziato fin da giovanissima a frequentare il mondo dell’arte d’avanguardia nel clima cosmopolita di New York, dove si era presto affermata sia come musicista sperimentale che come artista visiva e performer, partecipando alle prime manifestazioni di Fluxus promosse da George Maciunas, che in quegli anni di soffocante guerra fredda rispolverava lo spirito dissacrante del Dadaismo. Nei filmati e nelle foto dell’epoca, la vediamo così inginocchiata sul pavimento mentre gli spettatori ad uno ad uno tagliavano un pezzo del suo vestito con delle forbici, oppure sdraiata su un pianoforte suonato da John Cage che come lei aveva un grande passione per la filosofia Zen. O ancora la ascoltiamo nei suoi vocalizzi estremi, lei che, ancora studentessa, aveva adorato la dodecafonia di Schönberg, e che in questa sua passione sperimentale riuscì a coinvolgere lo stesso Lennon, realizzando con lui nel 1968 un disco come Two Virgins, rimasto ostico per i più, salvo forse la copertina dove i due comparivano nudi.
Ma al di là dell’attivismo e delle provocazioni, quello che emerge con forza da questa mostra è la natura intimamente poetica dell’arte di Yoko Ono, come dimostra un libricino di formato quadrato pubblicato nel 1964 con il titolo Grapefruit (un frutto che, come lei, orientale trapiantata in Occidente, era nato da un incrocio tra specie diverse) in cui sono raccolti i brevi testi da cui hanno avuto origine i suoi lavori video e performativi. Si tratta di lapidarie istruzioni per l’uso, che ci invitano ad affrontare il mondo sub specie poetica. Una poesia scarna e minimale tutta giocata sul filo dello straniamento e del paradosso, secondo la logica tipica del pensiero Zen. La poesia, per capirci, di chi è capace di ascoltare il rumore prodotto della terra che ruota su se stessa, o di registrare su un nastro il suono della neve che cade non per ascoltarlo ma per usarlo per impacchettare dei regali, oppure di accendere un fiammifero e guardarlo finché si spegne, o ancora, di immaginare un cielo illuminato da migliaia di soli per poi prepararsi un panino al tonno e mangiarlo.
La stessa poesia intensa e visionaria che ritroviamo nel brano più famoso della carriera solista di John Lennon, Imagine. Un brano che, non a caso, come aveva riconosciuto lo stesso Lennon, si ispira direttamente a quel libro di Yoko Ono in cui l’imperativo «immagina» compare con tanta frequenza. E allora, in questi giorni così strani e difficili per il mondo, immaginiamoci anche noi di sdraiarci tra John e Yoko in quel letto d’albergo al cui cospetto nel 1969 invitarono i media di tutto il mondo mentre lontano infuriava la guerra del Vietnam, e di cantare in coro assieme a loro: «Give peace a chance!» Forse, a quel punto, ci accorgeremo che la stanza dove ci troveremo si starà muovendo alla stessa velocità delle nuvole.