Patrizia Rinaldi, Hai la mia parola, Sinnos. Da 13 anni.
Un romanzo intenso, tutt’altro che evanescente, capace di evocare tanto la meraviglia quanto la brutalità della vita, il dolore e l’amore che sperimenta chi è al mondo. Restando però accortamente sul filo del simbolico, come avviene nelle fiabe, e come l’autrice (che si conferma un’ottima scrittrice, per ragazzi e per adulti) riesce a fare benissimo. La vicenda è ambientata in un mondo remoto, che è la Sardegna del XVIII secolo, ma potrebbe anche svolgersi altrove (Rinaldi è di Napoli e forse non è un caso che si risveglino nel lettore echi di Basile, sia nel vigore sanguigno del racconto, sia negli archetipi fiabeschi, sia nella passione stessa de «lo cunto», del raccontare cioè una storia che sia prima di tutto avventura, azione trascinante).
Ci sono due sorelle: una bella, dolce, mite; l’altra sgraziata, brusca, zoppa. Mariagabriela e Nera. Ma la protagonista è Nera, è lei l’io narrante, è sua l’acuta prospettiva su questa vicenda. È lei che sa parlare, sa leggere, sa raccontare. È lei che «ha la parola»: il titolo allude sia alla promessa che Nera fa alla sorella, di salvarla dalle luride bramosie di un visconte che la tiene prigioniera, sia forse anche al fatto che le parole possono essere un dono salvifico, perché il linguaggio crea il mondo. Le parole, che Nera sa usare così bene, e che si compongono in storie meravigliose, che risuonano come musica, curano le sue ferite, sostituiscono le sue mancanze, offrono a lei e a chi le ascolta un immaginario che può essere un talismano di resilienza. È indicativa la citazione (da La strada, di McCarthy) che apre il volume: «Evoca le forme. Quando non ti resta nient’altro, imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra».
A Nera sembra non restare nulla: è in miseria, odiata da una matrigna che incarna il vilain fiabesco, deve lottare contro lo strapotere di un Visconte – il Male – e accettare l’indifferenza di un padre che gli vende la figlia bella, non riesce nemmeno a muoversi agilmente. Eppure parte. Intraprende il suo viaggio avventuroso di crescita. Degli aiutanti saranno al suo fianco: oltre a una Monaca coraggiosa e saggia (da cui Nera aveva imparato l’amore per le storie e che diventa per lei una madre elettiva), ci sarà un ragazzo con cui l’amore sboccerà a poco a poco, senza orpelli né romanticherie, ma con sobria verità; e ci saranno due animali, un gatto selvatico – libero e generoso nel procurare prede ai suoi compagni di viaggio – e un capretto salvato dagli artigli di un’aquila, che verrà chiamato Cicatrice. È proprio una compagnia di creature con cicatrici, questa che circonda Nera. Ma per ognuna è possibile un orizzonte di riscatto. Per Nera in primis, che si trasformerà, letteralmente, lasciando fiorire tutta la sua bellezza. Non c’è magia in questa trasformazione, ma solo una nuova, profonda, consapevolezza di sé. Nera, che prima viveva solo come contraltare alla sorella (anche questo, dei «fratellini» simbiotici, è un topos fiabesco), potrà finalmente emanciparsi dal suo «doppio» e diventare una giovane donna rinata davvero. Scampata al male, come sua sorella.
Brian Lies, Il giardino di Evan, HarperCollins. Da 4 anni.
Ci sono libri per bambini che affrontano il tema del lutto con grevità, come fosse un arduo compito da affidare a una storia costruita ad hoc, e ce ne sono altri che lo affrontano con una prospettiva più delicata e simbolica, ispirata allo sfiorire e al rifiorire della vita e dei moti dell’anima. Uno di questi è l’albo illustrato Il giardino di Evan, vincitore della prestigiosa Caldecott Honor Book. Proprio com’era nel grande classico ispiratore, Il giardino segreto di F.H. Burnett, questo libro parla di un giardino ma anche del dolore della perdita e dell’elaborazione del lutto. Evan e il suo cane amavano lavorare nel giardino, che grazie alle loro cure fioriva rigoglioso. Ma quando Evan dovette dare l’addio al suo vecchio cane, nulla sembrò più avere senso e il giardino diventò un luogo di tristezza e nostalgia. Evan attraversò allora dapprima la rabbia, distruggendo il giardino, poi l’amarezza, lasciando crescere erbacce pungenti come il suo dolore, ma piano piano si lasciò guarire dallo slancio vitale della natura, e ricominciò a prendersi cura di una piantina (e della sua anima), riaprendo il suo cuore alla vita.