Nato in Sicilia, a Bagheria, nel 1943, appassionato di fotografia sin da adolescente, figlio della cultura realista italiana, a cambiargli la vita è stato l’incontro nel 1963 con Leonardo Sciascia, con il quale pubblica nel 1964 il suo primo libro Feste religiose in Sicilia. Si trasferisce poi a Milano dove lavora per «L’Europeo» e poi a Parigi, dove conosce il suo grande amico-maestro, Henri Cartier-Bresson, scrive per «Le Monde Diplomatique» e «La Quinzaine Litteraire».
Da Parigi, parte per il mondo con lo scopo di gettare il suo sguardo oltre il reportage di denuncia e ambire alla costruzione di racconti espressivi ed eticamente rilevanti realizzati con stile, rifiutando qualsiasi messa in scena finzionale.
Alla soglia degli ottanta, dopo aver lavorato in 23 paesi per quasi sessant’anni, Scianna non ha esaurito la passione che riversa nei suoi progetti e che ritroviamo anche nei suoi scatti esposti nella mostra dal titolo Dormire, forse sognare.
Le sue fotografie dialogano spesso con i testi, come agisce tale binomio in questo progetto?
Sono molto affezionato a questo lavoro, anche al libro, proprio perché è il risultato della mia ossessione frustrata per la letteratura, il tentativo di adottare un linguaggio in cui le parole non siano didascalie delle immagini e le immagini non siano illustrazione delle parole, una sorta di nuova letteratura. Qui ho raccolto un’antologia di testi letterari e fotografie. E poi è un lavoro anomalo per rapporto agli altri miei: io non sapevo di avere questo progetto, non sapevo di questa ossessione inconsapevole di fotografare la gente che dorme. Ci sono voluti vent’anni per portarlo a termine, dalla presa di coscienza alla mostra. E altri dieci anni mi sono serviti per fare il libro… Cartier-Bresson, mio maestro e amico, diceva che il tempo ti restituisce il rispetto con cui tu lo tratti.
Quali elementi prevalgono, la creatività o la progettualità? La verità o la rappresentazione?
Quando le ossessioni sono consapevoli hanno una progettualità, quando non sono consapevoli ti raccontano di te stesso molto più di quanto tu non sappia.
Abbandonarsi al sonno in pubblico è un po’ affidarsi alla benevolenza dell’umanità. Non è quel che ha fatto lei quando lasciò la Sicilia per fare il fotografo?
Guardi non so, essendo siciliano, se per retaggio ancestrale io abbia mai creduto alla benevolenza dell’umanità… Tutti lasciano qualcosa, di solito la parte peggiore di sé. Se c’è un leitmotiv nella mia vita non è l’amorevolezza, ma la fortuna, quella che si incontra come si incontra un talento, che peraltro non è un merito. È come avere gli occhi azzurri o gli occhi neri. Ho imparato a fare il fotografo dopo il mio primo libro, quando mi hanno riconosciuto un talento. Infatti, mi sono sempre chiesto, ma chi ha fatto le foto di Feste religiose in Sicilia? La passione, l’istinto, la fame di vita, mi hanno fatto fare cose che andavano al di là della mia capacità di fare, ma solo dopo ho imparato il mestiere. È vero però che se io vado a guardare quelle foto, capisco che tutti i semi di quello che io poi ho fatto, sia nei temi sia nelle cadenze formali, erano già tutti lì.
È questo il talento…
Il caso! La storia. Gli incontri. Che cosa ha fatto sì che quel signore – che cominciava a diventare uno importante (ndr.: Leonardo Sciascia) – davanti alle mie prime fotografie provasse interesse o aberrazione, e che cosa gli ha permesso di vedere in quella mostra, cose importanti che poi mi ha riferito rivelando addirittura a me stesso quello che io stavo facendo senza rendermene conto? A volte la passione induce alla fortuna, agli incontri, e gli incontri sono la discriminante della vita. Ci sono tante persone che tu ammiri, però ogni tanto incontri un maestro e qualche volta questo maestro diventa tuo amico, e un amico maestro è quello che ha nelle sue mani il tuo destino.
«Fotografo, uno che ammazza i vivi e resuscita i morti» così le rispose suo padre quando gli confessò cosa avrebbe fatto da grande.
Mio padre alludeva a vicende di paese; io ho dovuto leggere Roland Barthes, Oliver Wendell Holmes e altri… ho dovuto leggere molte cose per scoprire la relazione forte tra la fotografia e la morte.
…e il dormire.
Sì, è un’altra ragione per cui sono tanto affezionato a questo tema. Perché è una faccenda ambigua. Non c’entra con la morte, il dormire. Quell’uomo che dorme è immobile ma è vivo. Più precisamente i poeti e gli scrittori sempre ci hanno visto morte e sogno, nel dormire, quindi non una sospensione ma un allargamento della vita; è una specie di sfida alla fotografia che uccide il momento di vita; lì, fotografi una persona immobile che probabilmente sta vivendo qualcosa di molto più straordinario della sua immobilità, cioè il sogno.
Che è qualcosa di molto intimo. Lei dice spesso che la massima aspirazione di una foto è quella di finire in un album di famiglia: ha fotografie così intime che custodisce con gelosia e non vorrà mai mostrare al pubblico?
Guardi, io sono uno spudorato mostratore. Non farei il fotografo se non avessi l’arroganza e l’illusione di credere che i frammenti salvati tra un milione e più di scatti realizzati, non abbiano qualche cosa da raccontare. Per cui le dico di no, perché non c’è niente di più intimo di tutte le fotografie che ho fatto, perché quello sono io.
Non artista, non ritrattista, non paesaggista, non antropologo… ma nemmeno fotografo narratore? È certo di essere «solo» un fotografo, come dice a volte?
Mi appassiona il ritratto, trovo sia difficilissimo, ma trovo che il ritratto sia una delle forme più complesse e affascinanti della fotografia. Se non c’è racconto non c’è nulla: che lei faccia il cuoco o lo scultore, se in quello che produce non c’è un racconto, non c’è niente. Mi importa raccontare storie.
Avesse fatto il narratore, avrebbe scritto racconti, romanzi o poesie?
Tutti i miei più importanti amici – ho avuto la fortuna di averne tanti e meravigliosi – sono soprattutto scrittori. Forse perché io ho una nostalgia: non ho nessuna intenzione di ripeterla, una volta basta e avanza, però se avessi avuto un’altra vita, nascere con il talento dello scrivere mi sarebbe piaciuto. Dunque, sicuramente sarei stato un raccontatore, ma non è che tutti quelli che raccontano scrivono romanzi. Io ho molto scritto di fotografia ma non solo di fotografia. Mi ha salvato la scrittura, quando il corpo non mi ha più permesso di fare il fotografo. Ho trovato in essa momenti di appagamento e di riflessione. Essendo siciliano, così come lo era Pirandello che ha capito che vivere significa anche guardarsi a vivere e riflettere sul vivere, mi interessa insomma riflettere su quello che faccio, e riflettere sulla fotografia è una maniera per raccontare quello che ti racconto.
«Artista sarà lei!». Porre l’etichetta di opera d’arte sopra una fotografia significa «togliere senso storico al lavoro del fotografo». Lo pensa ancora nell’era delle visual art, in cui le fotografie sono così manipolate in postproduzione da generare prodotti altri, penso a David LaChapelle o, per restare in Italia, a Patrizia Burra?
Non è la mia tazza di tè, come dico io. L’artista e il fotografo sono due cose incompatibili. È facilissimo oggi ritoccare una foto: forse questo la rende più suggestiva, però non è la foto di tua madre che ti metteresti nel portafoglio. Siamo nell’ambito dell’illustrazione fantastica. E questo, come dice il mio amico Berengo Gardin, è perché non credono nella fotografia. Tu devi fare la scommessa che il reale sia tutto il tuo fantastico.