Guardando il programma delle mostre attualmente in corso nei musei delle principali città svizzere si ha l’impressione che «l’altra metà dell’avanguardia», secondo la fortunata espressione coniata da Lea Vergine nel 1980, sia finalmente riuscita a evadere dagli oscuri anfratti in cui era stata a lungo confinata. In una sorta di corale unisono, i più importanti musei d’arte svizzeri dedicano infatti, in questi primi mesi del 2022, ampie retrospettive ad alcune artiste che hanno segnato la storia dell’arte del Novecento. Così, se a Zurigo il Kunsthaus ospita Yoko Ono e a Berna il Zentrum Paul Klee rende omaggio a Gabriele Münter, al Kunstmuseum di Basilea e alla Fondazione Beyeler sono di scena rispettivamente Louise Bourgeois e Georgia O’Keeffe mentre a Ginevra il MAMCO presenta un’antologica di Verena Loewensberg.
Piuttosto che come una pura e semplice manifestazione dell’imponderabilità del caso, la sincronia di queste presenze femminili nei principali spazi museali del nostro paese credo possa essere letta alla luce del profondo mutamento avvenuto all’interno del sistema dell’arte negli ultimi decenni. Un mutamento che si può ricondurre a tre cause principali strettamente correlate tra di loro. Tra queste, il ruolo predominante è indubbiamente addebitabile alla crescente attenzione e diffusione che nell’ultimo decennio hanno incontrato le tematiche femministe e più in generale le questioni di genere che, dai contesti accademici dove sono state inizialmente discusse e teorizzate, si sono sempre più espanse in tutto il corpo sociale.
Un altro fattore importante è costituito dal radicale processo di revisione a cui è stata sottoposta la storiografia artistica del Novecento. Questo processo, avviato da lavori pioneristici come quello già citato di Lea Vergine, ha preso corpo in un numero crescente di studi che hanno contribuito a modificare una narrazione fino ad alcuni anni fa ancora profondamente androcentrica, sottraendo molte artiste all’oblio e alla marginalità a cui erano state condannate.
Infine, su un piano più concreto, non va dimenticato il fatto che, diversamente da quello che accade in molti altri settori, tra le figure professionali che operano all’interno delle istituzioni museali e si occupano d’arte, le presenze femminili oggi non solo generalmente pareggiano ma non di rado superano quelle maschili e questo vale ormai anche per le posizioni di vertice. Limitandoci alle istituzioni citate in precedenza, possiamo ricordare che alla testa della fondazione nata dall’unione del Kunstmuseum Bern e dal Zentrum Paul Klee vi è ormai da cinque anni Nina Zimmer, mentre anche il principale museo d’arte svizzero, il Kunsthaus di Zurigo, dal prossimo anno sarà affidato, per la prima volta nella sua storia, a una donna.
Quanto radicalmente diversa fosse la situazione agli inizi del secolo scorso e quali difficoltà incontrava una donna che voleva dedicarsi all’arte, lo testimonia la vicenda di Gabriele Münter (1877-1962), con Marianne von Werefkin, un’antesignana tra le artiste attive nell’ambito delle avanguardie novecentesche e, come abbiamo appena ricordato, una delle artiste al centro di questa «primavera rosa». Nel 1901, di fronte all’impossibilità, in quanto donna, di essere ammessa a un’Accademia di belle arti, la Münter decise, pur di non rinunciare al proprio desiderio di dipingere, di iscriversi a una scuola d’arte privata promossa da un gruppo di artisti che si opponevano al tradizionalismo accademico. Quell’iniziale esclusione dal sistema formativo ufficiale fu in realtà la sua fortuna, perché oltre a proteggerla dal rischio di incagliarsi, come molti altri in un tardo impressionismo di maniera, la catapultò nell’occhio di quel devastante ciclone modernista che travolse il panorama artistico della prima metà del secolo scorso.
Nelle aule tranquille e poco affollate della Phalanx Schule di Monaco, e nel contesto rurale di Murnau nel sud della Baviera, Gabriele Münter imparò a liberare il proprio linguaggio pittorico da ogni formalismo accademico e a farne uno strumento di espressione della propria dimensione spirituale grazie soprattutto a Vasilij Kandinskij che fu il suo maestro e poi il suo compagno per una decina di anni. Ma a questa liberazione dei mezzi espressivi, caratterizzata dall’uso di forme semplificate, colori vivaci e contorni marcati, la Münter si era già preparata per conto proprio negli anni precedenti, quando dopo la morte dei genitori, dai quali aveva ereditato un cospicuo patrimonio, aveva intrapreso con la sorella un viaggio durato due anni negli Stati Uniti, iniziando a praticare con assiduità non solo il disegno, ma anche la fotografia. Come le scrisse lo stesso Kandinskij: «come allieva sei senza speranza, non ti si può insegnare nulla. Puoi fare solo ciò che è maturato in te. Tu hai tutto dalla natura. Quello che io posso fare per te, è proteggere il tuo talento e fare in modo che non si falsi». Tuttavia, proprio da questo giudizio è derivata l’immagine di un’artista in gran parte istintiva e naïf che ha finito per nuocere alla giusta valutazione della sua produzione artistica, di cui in passato si è quasi sempre preso in considerazione solo la parte realizzata negli anni in cui ha vissuto con Kandinskij. Ovviamente, il loro lungo e complesso rapporto è un elemento ineludibile per chiunque voglia capire l’arte della Münter, ma non la riassume e non la spiega nella sua totalità. Anche perché va ricordato che l’artista russo non è stato solo il suo maestro e il suo compagno. Kandinskij, infatti, è stato anche colui che nel 1915 l’ha abbandonata di colpo e senza spiegazioni, gettandola in una depressione durata molti anni; colui col quale negli anni Venti ebbe un lungo conflitto giudiziario a proposito della proprietà di molti dipinti; colui di cui, a dispetto di un rapporto ormai incrinato, preservò opere fondamentali nascoste in cantina negli anni in cui l’arte degenerata veniva distrutta dalla furia nazista, per poi donarle nel dopoguerra al Museo di Monaco.
Il merito della mostra ospitata al Zentrum Paul Klee è quindi proprio quello di non mostrarci unicamente la Gabriele Münter che in parte già conosciamo, quella degli anni trascorsi a fianco del padre dell’astrattismo, ma di mostrarci anche il suo cammino prima e dopo questo periodo, facendo riemergere dall’ombra dettagli meno noti che ci permettono di avere finalmente un ritratto a tutto tondo di un’artista che non è stata solo «l’altra metà di Kandinskij».