Con il suo percorso caratterizzato da una forte impronta personale, Rolando Raggenbass è stato una figura del tutto peculiare nel panorama artistico ticinese della seconda metà del Novecento. Ciò che difatti ha contraddistinto il suo lavoro fin dagli esordi è stata la capacità di guardare alle esperienze e ai linguaggi a lui contemporanei rimanendo sempre ben ancorato a una sensibilità incondizionata, fondata sull’integrità e sulla risolutezza della sua ispirazione.
Solitario, riservato, molto curioso ma anche estremamente critico nei confronti della società postmoderna che aveva ormai palesato tutti i suoi limiti e i suoi inganni, Raggenbass si è mosso con circospezione tra i tanti stimoli del suo tempo, maturando una sorta di sfiducia nelle elaborazioni programmatiche collettive. Questo lo ha portato ad avvicinarsi invece ad alcuni singoli artisti la cui ricerca era da lui considerata affine al proprio sentire.
Nato nel 1950 a Balerna e scomparso poco più che cinquantenne nel 2005, Raggenbass viene annoverato tra gli esponenti di quel «ritorno alla pittura» originario degli anni Ottanta come reazione al concettualismo dei decenni precedenti che giudicava superati i tradizionali mezzi espressivi. Inserita in questa ampia cornice identificativa, l’attività dell’artista ticinese manifesta però tutta la sua carica di indipendenza seguendo un cammino creativo sui generis che riesce a essere ben coeso nonostante l’assenza di un criterio rigoroso che lo determini.
Questa mancanza di sistematicità della sua produzione può essere letta come frutto della predisposizione caratteriale di Raggenbass, scettico per natura e avvezzo a dubitare delle fittizie rassicurazioni che la società propina all’uomo, convinto che la ricerca della verità parta proprio dalla diffidenza e dalla consapevolezza che il senso che diamo alle cose sia mutevole e precario.
Ecco allora che questo atteggiamento si traduce in un assiduo lavoro di meditazione su sé stesso e sul proprio operato, senza il timore di mettere in discussione ogni volta i risultati raggiunti: per Raggenbass fare arte non significa imboccare una traiettoria lineare e priva di ostacoli bensì condurre un’indagine sempre aperta alla disincantata esplorazione dell’uomo che presuppone inizi, pause, riprese, esitazioni e cambi di rotta, specchio della complessità e della frammentazione dell’esistenza.
Non stupisce che per una personalità del genere, così propensa al continuo interrogarsi sul nostro essere nel mondo, le speculazioni intellettuali abbiano costituito un elemento fondamentale. Artista-filosofo, non a caso, era l’appellativo che Raggenbass si era guadagnato per il suo profondo interesse per le dottrine dei grandi pensatori, intese come «giardini immaginari da frequentare senza paura». Agli studi presso l’Accademia di Brera aveva affiancato i corsi del teoreta triestino Fulvio Papi all’Università di Pavia, cosicché pratica pittorica e riflessione filosofica sono state per lui due universi in perenne relazione.
A omaggiare il singolare percorso di Raggenbass è la mostra allestita fino a metà di maggio al Museo Comunale d’Arte di Ascona, una rassegna che avrebbe dovuto vedere la luce nel 2020 in occasione dei settant’anni dalla nascita e dei quindici dalla morte dell’artista ma che la pandemia ha fatto slittare a oggi. I dipinti riuniti nelle sale asconesi sono una quarantina circa e si presentano al pubblico secondo un ordine cronologico che documenta tutte le fasi del lavoro di Raggenbass, dai primi anni Ottanta agli inizi del Duemila.
Emblematicamente collocata all’inizio dell’itinerario espositivo è un’opera su carta del 1982 in cui viene rappresentato un funambolo, figura, questa, che incarna bene la concezione del mondo dell’artista: l’equilibrista che cammina sulla corda tesa diventa per lui il simbolo dell’uomo contemporaneo intrappolato in uno stato di incertezza e di smarrimento costante.
I lavori dell’artista ticinese risalenti agli anni Ottanta, riconducibili a un contesto NeoPop e influenzati da autori quali Jim Dine, Mario Schifano e David Hockney, attingono spesso al grande serbatoio di immagini messo a disposizione dalla società dei consumi per restituire una realtà in cui l’individuo appare disorientato e confuso. Oggetti quotidiani, considerati segni visibili di una condizione solo apparentemente privilegiata, vengono avvolti in una dimensione intimistica che riflette lo spaesamento dell’io. Come quell’appariscente cravatta nera a pois rossi che campeggia in un’opera del 1985 a evocare un uomo che esiste solo attraverso le cose che lo circondano.
A poco a poco le composizioni si fanno sempre più rarefatte e le figure umane si trasformano in profili esili e appena sbozzati che si disperdono sulla superficie pittorica insieme a graffiti e scarabocchi. Adesso i riferimenti più evidenti sono Cy Twombly, Gastone Novelli e Jean-Michel Basquiat. I corpi schizzati sommariamente sembrano vagheggiare un aspetto compiuto che non sono in grado di raggiungere, espressione dell’impossibilità dell’artista di riprodurre il reale.
Nei primi anni Novanta la ricerca di Raggenbass subisce un cambiamento importante: le tele affollate di segni vengono ora sostituite da opere in cui si delineano sagome ampie e solitarie dalle tinte bianche, nere, marroni e grigie che rimandano a sembianze organiche. Ne è un esempio Senza titolo, del 1992, dove l’assenza di figurazione permette all’artista di affidare al solo colore la narrazione delle sue emozioni.
Questi lavori fanno da preludio alla produzione degli anni successivi in cui, dapprima, grandi forme nere, come monoliti scuri e impenetrabili, si appropriano dell’intera superficie del dipinto, poi, macchie filamentose di color rosso sangue, imprigionate sotto fogli di plastica trasparenti, si addensano sulla tela come fossero i brandelli di un corpo lacerato, estremo tentativo da parte dell’artista di sviscerare in profondità l’essere umano.
A conclusione del percorso di mostra troviamo gli Elfimilza, sculture che Raggenbass realizza inserendo in collant femminili di nylon della schiuma di poliuretano e lasciando poi che questo materiale si espanda in maniera autonoma al loro interno: abbandonate a un destino formale privo del controllo dell’artista, tali opere assumono una fisionomia ibrida, incerta, sospesa tra l’organico e l’inorganico, potente metafora dell’incapacità dell’uomo di esprimere appieno la propria identità.