È una notte d’ottobre e una banda di ladri forza le imposte delle finestre che danno su via Immacolatella dell’Oratorio della Compagnia di San Francesco nella chiesa di San Lorenzo nel quartiere antico della Kalsa. È un piccolo edificio sprovvisto di allarme, custodito da due donne. Spostano i candelabri e il crocefisso, poi estraggono il quadro – un olio su tela di cm 298 per 197 cm – dalla cornice assieme al telaio e lo avvolgono in un tappeto. Caricato il bottino su una Fiat 642 i malviventi lasciano il quartiere, che è uno dei capisaldi della mafia locale. Le due custodi non si accorgono di nulla, né tantomeno i vicini. Così almeno attesta il primo verbale, siglato il 30 ottobre da un maresciallo dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio artistico, quindi molti giorni dopo la notte del furto, avvenuta presumibilmente fra il 17 e il 18 ottobre. Ma della data effettiva non c’è ancora assoluta certezza, come del resto non si possono ricostruire con precisione i numerosi trasferimenti che subisce il capolavoro del Caravaggio dopo quella notte.
«Un giochetto da niente per i ladri portarsi via il quadro di Caravaggio», titolava a pagina 2 il «Giornale di Sicilia» il 20 ottobre, mentre su «L’Ora» una dettagliata cronaca la firma Mauro de Mauro, il giornalista che l’anno dopo sparirà nel nulla per volontà della mafia.
Divampano subito le polemiche per l’incuria con cui era conservato il dipinto, di fatto di proprietà della curia; si accusa di «inconsapevolezza» anche la sovrintendenza alle belle arti (che ammette candidamente di non essere affatto sorpresa di questo furto); tutti d’accordo nel compiangere la scomparsa dell’unica opera di Caravaggio a Palermo (ma che secondo le tesi più accreditate di numerosi studiosi sulla base di indagini storico-artistiche e stilistiche il dipinto appartiene al periodo romano del pittore, realizzata nel 1600 a Roma e non nel 1609 a Palermo, dove il pittore in realtà non avrebbe mai messo piede) e ad essa si legavano anche i famosi stucchi di Giacomo Serpotta, anch’essi danneggiati.
Da allora la Natività si può dire che sia entrata nel mito; nota ormai per gli addetti ai lavori come la «pratica 799». Di certo la tela, trafugata da una gang palermitana che ne ricava circa 5 milioni, passa in seguito nelle mani di boss mafiosi come Stefano Bontade e Gaetano Badalmenti; arriva anche una richiesta di riscatto al parroco di San Lorenzo per «’U Caravaggiu», come ha confermato a una recente puntata di Falò l’allora sovrintendente alle belle arti di Palermo Vincenzo Scuderi. Ma con la mafia non si tratta. Quindi la mafia cerca di rivendere la tela a un anziano trafficante di opere d’arte di origini elvetiche, residente nel Luganese; si sa poi che già nel 1970 la Natività viaggia su camion «di quelli per la frutta» a destinazione della Svizzera, dove forse viene diviso in più parti per agevolare la vendita.
Nella vicenda emerge anche il nome del barone Von Thyssen-Bornemisza, la cui famosa collezione aveva (ancora) la sua sede a Lugano; il ricco collezionista diventa un sorvegliato speciale di Rodolfo Siviero, noto anche come lo «007 dell’arte» che all’epoca dirigeva l’Ufficio per le restituzioni al Ministero degli affari esteri italiano. Le ultime piste degli inquirenti portano al nome – secretato – del trafficante svizzero che però è morto da tempo; si spera a questo punto di poter ricostruire nel dettaglio le sue frequentazioni per poter forse un giorno risalire all’attuale e illegittimo proprietario della Natività; «la prescrizione cancella il reato, il perdono cancella il peccato. Fateci ritrovare Caravaggio»: questo il recente appello di Papa Francesco.
La scomparsa del capolavoro di Caravaggio sembra una vera spy story, in cui entrano in scena boss mafiosi, detective, commissioni parlamentari, trafficanti d’arte e persino il Vaticano. Ma quel vuoto sopra l’altare di San Lorenzo – da qualche anno riempito con una fedele riproduzione del quadro – simboleggia la profonda ferita inferta al patrimonio culturale di una città che affrontava il drammatico problema delle scarse difese delle opere d’arte. Si capisce allora l’amarezza delle parole di Leonardo Sciascia che all’indomani del furto su «l’Ora» concludeva il suo articolo così: «L’Italia è il paese dell’arte: ma le opere d’arte vadano in malora». Nel suo ultimo romanzo, Una storia semplice, Sciascia si ispirerà proprio alla sparizione del Caravaggio, che era (e resta) una questione di legalità e di civiltà di un intero paese.
Quello della Natività era infatti l’ultimo di una preoccupante serie di furti che in quegli anni colpisce la Sicilia (poco prima era stato sventato il tentativo di furto a Palazzo Abatellis dei tre santi dottori di Antonello da Messina): un furto che non può più far chiudere gli occhi su un patrimonio culturale alla mercé della malavita, dell’incuria e della speculazione edilizia. Non è un caso che proprio nel maggio del 1969 l’Italia si fosse dotata del primo Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.