La fortuna di potere narrare

1. parte – Il prestigioso premio della pace Friedenspreis des Deutschen Buchhandels quest’anno è stato attribuito alla scrittrice canadese Margaret Atwood
/ 23.10.2017
di Margaret Atwood

Sono consapevole di aggiungermi a un lungo elenco di scrittori internazionali estremamente talentuosi, di successo e coraggiosi. Questo è un onore speciale perché i librai, per loro natura, sono lettori estremamente attenti, e proprio per questo sono fra i Cari Lettori cui ogni scrittore si rivolge. Per una scrittrice proveniente da una nazione con un passato coloniale come il Canada – una nazione in cui la scrittura e le arti in generale non sono state prese sul serio fino a qualche decennio fa – è quasi incredibile ricevere questo premio.

Quando questo premio fu istituito nel 1950 – certamente come gesto di speranza in un mondo sconquassato dalla Guerra più letale della storia – io avevo solamente dieci anni e non sapevo nulla del commercio dei libri, e non molto della scrittura, sebbene per qualche tempo l’avessi praticata. Avevo rinunciato alle mie ambizioni letterarie dopo avere abbandonato a metà il mio secondo romanzo a sette anni: l’eroina era una formica e si trovava su una zattera diretta verso un’avventura che non avrebbe mai avuto luogo. È una cosa che capita spesso agli autori dei romanzi: un inizio molto promettente seguito da una parte centrale frustrante, magari perfino noiosa. Tanto più se l’eroe è un insetto, anche se questo è un problema che Kafka è riuscito a superare.

All’età di dieci anni volevo diventare una pittrice, o meglio ancora, una stilista. Mi piaceva disegnare donne sofisticate con guanti lunghi fino ai gomiti e sigarette con bocchino. Non avevo mai visto quel genere di persone, ma avevo visto le loro fotografie. È questa l’incantevole influenza dell’arte.

Dopo qualche incontro poco soddisfacente con la tavolozza e qualche complicata avventura con una macchina da cucire – in altre parole, quando la realtà sostituì la fantasia – all’età di sedici anni optai per un percorso scientifico – come mio fratello maggiore, il Dr. Harold Atwood, neurofisiologo, oggi presente tra il pubblico. Anche se può sembrare strano, volevo diventare una botanica. Le piante erano silenziose e facili da osservare e, a differenza delle rane, non sanguinavano quando le tagliavi, per cui mi sentivo a posto anche con la coscienza. Poi improvvisamente mi trasformai in una scrittrice, cominciando a scrivere furiosamente. Non so perché successe, ma successe, e nella mia vita la fantasia ritornò di nuovo al primo posto.

Essendo canadese, non posso assumermi meriti personali per il fatto di apparire nel vostro eccellente elenco. I canadesi rifuggono i meriti personali. Non posso nemmeno assumermi meriti per essere un’attivista, etichetta che mi affibbiano spesso. Io non sono una vera attivista – una vera attivista considererebbe la propria scrittura un veicolo per il proprio attivismo, qualunque sia la causa in gioco – ma non è il mio caso. È vero che è impossibile scrivere romanzi senza osservare il mondo, e che quando si osserva il mondo ci si chiede cosa stia succedendo, per poi cercare di descriverlo; credo che gran parte della scrittura sia il tentativo di capire perché la gente faccia quello che fa. Il comportamento umano, sia esso virtuoso o vizioso, per me rappresenta una costante fonte di stupore. Si scrive del comportamento umano però, si risveglia un’idea di attivismo, poiché sia il linguaggio sia le storie possiedono una dimensione morale intrinseca. Il lettore darà dei giudizi morali, anche laddove lo scrittore sostiene di essere solamente un testimone. Quello che potrebbe venire preso per attivismo, nel mio caso di solito è una specie di stupore impacciato. Perché l’imperatore non indossa i vestiti, e perché rivelarlo spesso è considerato maleducazione?

Così, dopo avervi ringraziato per tutte le cose belle che avete detto di me, ascriverò questo momento felice alla fortuna e alle stelle e alla collisione del mio strano – lo ammetto – lavoro (in particolare il lavoro distopico) con lo strano momento storico che stiamo attraversando.

Cos’è questo strano momento storico? È uno di quei momenti in cui il suolo – che fino a poco fa sembrava stabile, con il tempo della semenza a seguire quello del raccolto, eccetera – sotto i nostri piedi traballa, soffiano venti potenti, e non sappiamo più con certezza dove siamo. Non sappiamo nemmeno più chi siamo. A chi appartiene il volto nello specchio? Perché ci stanno crescendo delle zanne? Fino a ieri eravamo pieni di buona volontà e di speranza. Ma ora?

Gli Stati Uniti stanno vivendo uno di quei momenti. Dopo le elezioni del 2016, alcuni giovani statunitensi mi hanno detto, «Questa è la peggior cosa mai successa;» al che io ho risposto sia «No, ci sono stati momenti peggiori», sia «No, non è la peggior cosa, non ancora». Anche la Gran Bretagna sta attraversando un momento difficile, con molte lacrime e a denti stretti. E, seppur in misura meno drastica, anche la Germania. Pensavamo che quella cripta fosse sigillata, ma qualcuno ne possedeva la chiave e ha aperto la stanza segreta, ora quale mostro ne uscirà?

Ogni Paese, così come ogni essere umano, ha un io nobile – l’io che vorrebbe credere di avere –, un «io» di tutti i giorni, l’«io» educato con cui riesce a superare la quotidianità, quando tutto procede come da programma, e infine un «io» nascosto, molto meno virtuoso, che potrebbe esplodere nei momenti di minaccia e rabbia, compiendo azioni indicibili.

Ma da cosa è causata quest’epoca di minaccia e di rabbia? A questo proposito avrete già sentito molte teorie, e di sicuro ne sentirete altre. Qualcuno dirà che sono i cambiamenti climatici: alluvioni, siccità, incendi e uragani si ripercuotono sulla crescita; vi sono poi la carenza di cibo, cui seguono i disordini sociali, le guerre, e i rifugiati, poi c’è la paura dei rifugiati: avremo abbastanza per potere condividere?

È uno squilibrio finanziario, dirà qualcuno: pochi ricchi controllano una parte troppo grande del benessere mondiale, causando disparità economica e risentimento, e questo porterà ai disordini sociali, alle guerre, o alle rivoluzioni. Qualcun altro dice che invece è il mondo moderno: la colpa è dell’automazione e dei robot, della tecnologia, di internet, della manipolazione delle notizie e delle opinioni a opera di pochi opportunisti. Ma perché ci stupiamo? Internet è uno strumento dell’uomo come tutti gli altri: asce, armi, treni, biciclette, automobili, telefoni, radio, film, e come qualsiasi strumento umano ha un lato buono, un lato cattivo e un lato stupido che produce effetti inizialmente non prospettati. 

Fra tutti questi strumenti probabilmente si trova anche il primo strumento prettamente umano: la nostra capacità di raccontare attraverso una grammatica complessa. Quali vantaggi devono averci portato un tempo le storie: la possibilità di tramandare le conoscenze essenziali, risparmiandoci di dovere scoprire le cose da soli. I lupi comunicano, ma non raccontano la storia di Cappuccetto Rosso.

(Il testo, qui riportato in versione ridotta, è stato tradotto dall’inglese da Simona Sala).