Dove e quando

(© Biblioteca nazionale svizzera BN)
La Ford V8 con cui fecero il viaggio
(© Biblioteca nazionale svizzera BN)
(© Biblioteca nazionale svizzera BN)
 

Ginevra-Kabul 1939: due donne svizzere sulla via della pace, Palazzo Rosso Campus Ovest USI, Lugano. Fino al 18 maggio. Orari: lu-ve 09.00-21.00; sa-do 09.00 alle 18.00. www.usi.ch

 

 

 


In viaggio da Ginevra a Kabul in tempo di guerra

All’USI, fino al 18 maggio, una retrospettiva fotografica dedicata ad Annemarie Schwarzenbach e Ella Maillart
/ 09.05.2022
di Vega Tescari

Ci sono paesaggi, ma ci sono soprattutto figure nel paesaggio. Le fotografie scattate da Annemarie Schwarzenbach durante il suo viaggio in Afghanistan con Ella Maillart nel 1939, al di là di generi e categorie quali la fotografia di viaggio, documentaria o il fotogiornalismo, sono immagini che disegnano percorsi e traiettorie, non solo relativamente ai territori visitati, ma anche all’interno dello spazio costruito dalle singole fotografie.

I molti ritratti in mostra sono ritratti di sguardi, capaci di mobilitare l’immagine, di creare dinamiche visive che coinvolgono lo spettatore. Occhi che si guardano, che ci guardano, che guardano qualcosa che non vediamo; occhi che diventano spesso il centro focale delle fotografie. Nell’immagine di un gruppo di persone in cammino colte frontalmente mentre avanzano verso l’obiettivo fotografico, si percepisce un dinamismo in virtù di direzionalità opposte; traiettorie si incontrano, sguardi si incrociano, quello della fotografa e quello dei suoi soggetti, e un terzo sguardo si genera, il nostro. Anche noi compresi per un istante all’interno della cornice fotografica. Se la fotografia non può restituire il movimento o un’azione nel loro farsi, può tuttavia alludere al movimento, farlo vivere in una dimensione virtuale, di pensiero. Ecco allora che la sospensione di un gesto può richiamare il prima e il dopo di quel gesto, riconsegnare in absentia un orizzonte narrativo che ciascuno riprodurrà nel proprio sguardo.

Osservando un’immagine si può dimenticare che qualcuno era lì a scattarla, in un determinato punto, in una determinata posizione. Nelle immagini di Annemarie Schwarzenbach si può percepire la sua presenza e ciò che anima il suo gesto fotografico; può essere un’ombra che penetra all’interno dell’immagine o, in modo ancora più significativo, la prospettiva da cui decide di ritrarre i suoi soggetti. Le persone sono perlopiù colte alla loro altezza dall’obiettivo fotografico e così, per ritrarre bambini seduti a terra o un uomo accovacciato in preghiera, la fotografa cerca un punto di vista paritario, che annulli una distanza e che soprattutto non sia dominante rispetto al soggetto. Schwarzenbach si dimostra in questo senso consapevole e sensibile rispetto al potere e alla potenziale violenza che una visione dall’alto può innescare. Come e da quale prospettiva si guarda è importante quanto ciò che si guarda; abbassarsi corrisponde a elevarsi all’altezza del soggetto. Le immagini possono dunque essere viste e lette anche sotto la lente di una pedagogia dello sguardo e di un’etica del guardare, in cui la volontà di stabilire un dialogo silenzioso, ricettivo e rispettoso, diviene un modo per superare o aggirare distanze culturali o linguistiche.

È possibile riscontrare dei fili sottili tra la sua opera fotografica e quella letteraria. Nei suoi testi si coglie uno sguardo fotografico sulla realtà, l’abitudine a osservare e la volontà di restituire a parole dimensioni visive. Lo si nota soprattutto nelle descrizioni paesaggistiche, nell’attenzione ai cieli, agli orizzonti, agli effetti luministici, cromatici e atmosferici. Luce, aria, nebbia, ombre, polvere, compongono scenari di parola e di visione, con una tendenza a inquadrare la scena come in fotografie potenziali, possibili. Scrive: «Ben presto il villaggio sarà abbandonato, forse tra venti, forse tra cent’anni. Una rovina in più. Qualche ondulazione del terreno dove prima c’erano cupole di case, una traccia di luna, il canale prosciugato e tutto in balia del vento, appiattito dal vento e incessantemente coperto da polvere nuova come da un giardiniere attento che cura e innaffia il suo giardino mattina e sera… Avanzo, sono finalmente all’aperto, l’orizzonte è immenso e il sole del pomeriggio si abbandona ai suoi abbaglianti giochi di luce, ma io sono ancora tra le rovine, sul terreno battuto della città sepolta, e l’altura sulla quale salgo era la sua fiera rocca».

Negli scritti di viaggio della fotografa svizzera emerge talvolta una sorta di disorientamento temporale, una difficoltà a definire che giorno o quale ora sia: «Non c’era neppure un orologio. Nessun rintocco di campana. Non valeva nemmeno la pena di festeggiare la domenica, trascorreva come qualsiasi altro giorno. Certo si poteva contare sul fatto che calasse la sera. Le notti erano molto lunghe, la luna brillava sempre in cielo e si rifletteva nel piccolo stagno fiabesco».

Per parte sua la fotografia viene ricondotta allo sguardo, ma è anche e soprattutto una dimensione in dialogo con la temporalità; è attestazione e condensazione di un istante estrapolato dal flusso del tempo, che si può porre in dialogo con quanto la scrittrice afferma rispetto all’esperienza del viaggiare: «La nostra vita assomiglia a un viaggio… e così il viaggio mi sembra, più che un’avventura e un’escursione in luoghi insoliti, un’immagine concentrata della nostra esistenza (…)».