(Foto di Cosimo Filippini, Museo Casa Rusca)
(Foto di Cosimo Filippini, Museo Casa Rusca)
(Foto di Cosimo Filippini, Museo Casa Rusca)
 

Il messaggio importante di Malina Suliman

L’artista afghana e la sua street art sono protagoniste al Museo Casa Rusca di Locarno fino al 15 agosto
/ 18.07.2022
di Alessia Brughera

Kabul, anni Duemila. Per le strade della città più popolosa dell’Afghanistan compare un graffito raffigurante uno scheletro avvolto in un burqa blu. Pochi e sommari spruzzi di una bomboletta spray delineano un’immagine nitida e potente. «Un autoritratto», lo definisce Malina Suliman, l’artista che lo ha realizzato pensando alla sua storia e a quella di tutte le donne afghane costrette ad annullare il proprio corpo e la propria identità in nome di una cultura tanto oppressiva quanto radicata nella loro terra.

Quando incomincia a eseguire le sue opere di street art, Suliman, nata nel 1990 a Kandahar, è l’unica artista afghana a utilizzare questa tecnica, praticamente quasi del tutto sconosciuta fino a quel momento nel suo Paese. L’arte lì viene presentata solo nei contesti espositivi istituzionali, dove però le donne non possono mettere piede senza l’autorizzazione concessa dall’uomo di famiglia. Scendere in strada, per Suliman, è così l’unico modo per comunicare con un pubblico più vasto, soprattutto con le persone che per motivi sociali e culturali non possono frequentare musei e gallerie, perché è proprio a loro che vuole parlare dando voce ai muri della città.

Lo spazio urbano diventa il luogo migliore per sollecitare riflessioni su questioni di ampia portata che possano coinvolgere tutti. E poco importa se per la paura di essere scoperta e punita i suoi graffiti spesso non si presentano con una resa finale impeccabile: ciò che preme all’artista è trasmettere un messaggio importante, e quello è sempre arrivato forte e chiaro, anche a coloro che l’hanno minacciata e persino lapidata durante la realizzazione delle sue opere ritenendole una provocazione alle tradizioni musulmane.

Come Suliman stessa ha raccontato, sebbene non abbia incominciato a dedicarsi all’arte a causa delle iniquità di cui è stata testimone e vittima, la sua ricerca l’ha condotta in maniera del tutto naturale a focalizzarsi sui temi della giustizia sociale. Partendo dai lavori sui muri di Kabul, di Kandahar e di Mazar-i-Sharif, la sua attività si è fatta fin da subito strumento di esplorazione e di denuncia dei meccanismi di esclusione e di discriminazione, incarnando le idee più liberali ed egualitarie delle nuove generazioni afghane.

Con l’intento di generare discussioni e di innescare un vero e proprio processo di cambiamento, Suliman affronta con coraggio argomenti che riguardano i diritti delle donne nella società, le gerarchie di classe e razza, le lotte geopolitiche e di potere, la migrazione, la convivenza di culture diverse e le questioni legate all’identità. Tutte questioni che l’artista vive in prima persona e che poi trasferisce nelle sue opere, interrogando il passato per agire sul presente.

Basta leggere la sua biografia per accorgersi di quanto queste problematiche abbiano da sempre condizionato l’esistenza di Suliman. Cresciuta al tempo dei talebani, è stata costretta fin dall’età di dodici anni a indossare il burqa, un’imposizione che ha minato nel profondo la sua personalità. Intenzionata a studiare arte, ha dovuto farlo di nascosto dal padre frequentando una scuola a Karachi, in Pakistan. Aggredita per strada mentre creava i suoi graffiti, è stata poi segregata per un anno intero tra le mura domestiche dalla sua famiglia, e, quando la situazione si è fatta ancor più pericolosa è stata obbligata ad abbandonare l’Afghanistan per trasferirsi nei Paesi Bassi, dove ha dovuto ricalibrare e ricostruire la sua identità di artista secondo la sensibilità dell’Occidente.

Eppure Suliman non ha mai desistito, arrivando a esporre i propri lavori in molti contesti internazionali e aiutando anche i suoi colleghi artisti (una categoria molto fragile nel Paese afghano che fino al 2001 puniva con la pena di morte gli autori di opere non gradite) attraverso la creazione della Kandahar Fine Arts Association.

Anche lontana dalla propria terra d’origine, Suliman ha continuato a trattare i temi a essa legati, quelli che appartengono alla propria storia. L’Afghanistan è uno Stato in guerra, turbato da continui conflitti civili e dall’occupazione di eserciti stranieri che ben poco hanno realmente fatto per cambiare la sua travagliata situazione. Con la ripresa totale del controllo da parte dei talebani, dopo la ritirata degli occidentali guidati dagli Stati Uniti nell’agosto dello scorso anno, il Paese è ripiombato nell’inferno dell’estremismo e dell’oscurantismo. Suliman sa, però, che ciò che condanna con le proprie opere non sono solo le restrizioni dettate dai fondamentalisti. La sua lotta è contro le consuetudini che hanno messo radici nel corso dei secoli in tutto l’Afghanistan, indipendentemente dai gruppi etnici e dalle aree geografiche, intridendo la società di dottrine misogine e anticulturali.

E non è allora un caso che la mostra a lei dedicata, allestita negli spazi del Museo Casa Rusca a Locarno, ruoti attorno all’immagine di burqa e turbanti, parti in causa di un contrasto mai sanato tra obbedienza e potere. Nei lavori esposti nella rassegna questi elementi con un forte portato simbolico appartenenti alla tradizione afghana vengono inseriti dall’artista in una cornice inedita e caricati di nuove valenze estetiche e concettuali.

Tra le opere locarnesi che più fanno riflettere c’è un’installazione video facente parte di un progetto nato nel 2015 a Londra dal titolo Beyond the Veil – A Decontextualisation. Quello che Suliman vuole fare è condurre una ricerca sul significato degli artefatti tipici del suo Paese, cercando di capire cosa succede nel momento in cui questi vengono inseriti in un contesto differente da quello consueto. Due sono i video proposti, uno mostra alcune donne che indossano il burqa afghano mentre camminano per le strade di Kabul, l’altro presenta la medesima situazione per le strade di Amsterdam (dove tra l’altro vige un parziale divieto di indossare il velo in luoghi pubblici), cogliendo così le diverse reazioni dei passanti.

Attorno al turbante, simbolo di autorità e di influenza maschile, ruotano invece alcuni lavori di Suliman intitolati Turban as Symbol of Male Supremacy. Nell’installazione tessile esposta a Locarno, la stoffa di questi copricapi viene utilizzata dall’artista per confezionare lingerie femminile e miniabiti, in una sorta di riconversione fisica e concettuale di uno degli accessori più significativi della tradizione musulmana.

Interessante, poi, è la sala dove Suliman propone un intervento pittorico parietale che richiama l’arte di strada praticata in Afghanistan come forma di espressione libera e accessibile a tutti, con il tema a lei tanto caro della discriminazione femminile che si concretizza nella rappresentazione di donne-albero le cui radici vengono recise a colpi d’ascia da piccole sagome nere.

A fine percorso c’è spazio anche per un’installazione realizzata sul pavimento con le spezie tipiche delle terre afghane che ci parla della non facile esperienza d’integrazione in Occidente di Suliman, in lotta questa volta per scrollarsi di dosso la riduttiva etichetta di rifugiata che spesso le viene affibbiata e per riuscire a far comprendere anche qui la potenza di un’arte che partendo dalla tormentata storia di un Paese assume un carattere universale.

Dove e quando

Malina Suliman, Museo Casa Rusca, Locarno. Fino al 15 agosto 2022. Orari: da ma a do 10.00-12.00/14.00-17.00, lu chiuso.