Ha vissuto a Lugano, dal 2003 alla morte, una signora molto delicata e colta di cui in Ticino pochi si sono accorti. Era una donna esile, straordinariamente acuta, curiosa, piena di vita vissuta e di memoria, desiderosa di amicizie. Si chiamava Ludovica Nagel e se n’è andata il 28 maggio scorso a 99 anni. Ludovica ha vissuto gli ultimi due anni in Casa Serena, prima abitava in un minuscolo appartamento al secondo piano della Casa Torre, a Castagnola. Era figlia del generale maggiore Karl Freiherr von Nagel zu Aichberg, comandante del primo reggimento di cavalleria pesante bavarese, ucciso a Monaco il 2 maggio 1919 nei combattimenti che posero fine alla Repubblica dei Consigli. Ludovica, che era nata a Monaco, aveva poco più di un anno e le sue sorelle maggiori, Melanie e Alexandra, rispettivamente dieci e cinque. Il generale von Nagel, appartenente all’aristocrazia bavarese, aveva sposato nel 1907 la giovane americana Mabel Dillon Nesmith, a sua volta discendente di una facoltosa famiglia newyorkese che aveva soggiornato al Cairo al seguito di un nonno (secondo marito della nonna) diplomatico.
Come le sue sorelle, anche Ludovica aveva passato gran parte della giovinezza in Toscana, in una villa situata in località Castello, a Sesto Fiorentino, acquistata dalla madre e dalla nonna: era stata tirata su da una governante svizzera, friburghese, con cui imparò il francese. Diceva di non aver sofferto dell’orfanità semplicemente perché non aveva conosciuto il sentimento della figliolanza: «Non sapevo neanche che cosa fosse essere figlia di qualcuno». Neanche di sua madre, che, trasferendosi negli Stati Uniti, lasciò le figlie al proprio destino: la maggiore, Melanie detta Muska, dopo il divorzio sarebbe entrata come novizia in un convento benedettino del Connecticut.
Ludovica si definiva un essere umano «in migrazione perenne». Prima di arrivare a Lugano per ragioni di salute, grazie all’intermediazione dell’avvocato Giancarlo Viscardi, aveva vissuto a Monaco, a Roma, a Milano, a Zurigo, a New York e di nuovo a Roma. Lasciata la campagna fiorentina, Roma diventa il centro della sua vita. Attratta dalle copertine Einaudi, nel 1946 Ludovica telefona in casa editrice in cerca di un lavoro e viene assunta come segretaria editoriale addetta ai diritti esteri: essendo quasi perfettamente quadrilingue, è la persona giusta per sostituire Bianca Garufi, compagna di Cesare Pavese e coautrice con lui del romanzo Fuoco generale, che sarebbe uscito nel 1959. Ludovica stringe amicizia con Cesare, che da quasi un anno si trova nella sede romana, con la collaboratrice Teresa Motta, con i redattori Felice Balbo (detto Cicino) e Natalia Ginzburg. Passerà alla sede di Milano, prima di traferirsi a New York, dove si dedica alla traduzione di saggistica dall’inglese all’italiano e dove frequenta la Columbia University e i circoli comunisti americani: «Mi si sono aperti gli occhi quando ho capito che il comunismo precludeva la libertà di essere e di pensiero: avevo già alle spalle l’orrore del collegio cattolico…». Per tutta la vita avrebbe combattuto contro la destra repubblicana, contro le tendenze americanizzanti europee, specie in ambito sanitario e ospedaliero, il suo autentico cruccio, per non dire la sua angoscia. La medicina spersonalizzata, i medici che per guadagnare sempre più non trovano mai il tempo di ascoltare: erano questi i suoi obiettivi polemici degli ultimi anni. Lucida e irriducibile, aveva iniziato a scrivere un saggio-memoir sull’argomento.
Un libro uscito nel 2008 per Archinto raccoglie le Lettere a Ludovica di Pavese, Balbo e Ginzburg. «Inutile dirLe – le scrive Pavese – che Roma senza di lei non è più nulla, non è più stella né del mattino né della sera…». Amicizie durature, tranne quella con Cesare, che si interruppe bruscamente il 27 agosto 1950 con il suo suicidio, peraltro quasi annunciato in una lettera al «Caro Chiodino» (così traduceva ironicamente il suo cognome insieme enfatizzandone l’esilità fisica), in cui alludeva all’attrice Constance Dowling: «se sapesse come la invidio che sta a New York. Pensi che in 55 strada vive e respira un mio formidabile amore che probabilmente mi costerà la vita». Pochi giorni prima, Ludovica aveva inviato a Cesare da Manhattan un pacchetto con cibarie, tabacco e un pullover, e lui informerà l’amica che Natalia, «sposata e incinta, ha l’aria felice e istupidita».
Intimamente belle anche le lettere di Natalia: gli umori, la quotidianità della famiglia, le nascite, i lutti, i libri in corso e il lavoro in casa editrice. Ludovica ebbe scambi epistolari intensi anche con il critico Nicola Chiaromonte, con il semitista Giorgio Levi della Vida, con lo scrittore Nicolò Tucci. Amava la tecnologia e fino a un anno fa circa scriveva agli amici via mail. Con Ludovica era facile parlare di tutto, perché era una donna che sapeva ascoltare, anche quando avvicinandosi ai cento diceva ai pochi amici: «Sto frammentariamente». Un paio d’anni fa le sottoposi, per gioco, le domande del Questionario Proust. Ottenni risposte fulminanti: «La persona scomparsa che richiamerebbe in vita? Me stessa»; «Il suo motto?». Risposta: «È più facile imparare il cinese che capire i ticinesi».
«A forza di solitudine, temo di diventare come Kaspar Hauser: ho paura di non riuscire a parlare più con nessuno», diceva, «chiamami più spesso, così arredi il mio futuro in maniera meno desolante». Dopo una cena insieme, diceva: «Ho fatto riserva di ricordi, mi sarà utile quando sarò sola e depressa». Portava con sé un pessimo ricordo delle scuole frequentate in un collegio cattolico di Colonia: nel congedarsene, a 17 anni, disse alla superiora che non avrebbe mai più messo piede in una Chiesa. Promessa mantenuta: il 31 maggio il suo funerale, con una dozzina di persone (e senza parenti), si è tenuto al Tempio Crematorio di Lugano. A proposito, alla domanda di Proust «come vorresti morire?», rispose semplicemente: «Non».