Fuoco al cielo, Viola Di Grado, La nave di Teseo, Milano, 2019


Accudire i mostri

A colloquio con Viola Di Grado, che nel suo Fuoco al cielo non teme la diversità né quelle che consideriamo mostruosità
/ 02.09.2019
di Laura Marzi

Abbiamo incontrato Viola Di Grado, autrice italiana dal talento scintillante, per parlare del suo ultimo romanzo Fuoco al cielo (Nave di Teseo). A partire da un fatto di cronaca, il ritrovamento in un luogo radioattivo di un bambino privo di genitali e di ombelico con una donna che decide di prendersene cura, in questo romanzo Di Grado racconta l’amore, la morte, la disperazione e «ciò che nasce dalla radioattività, dal veleno: il miracolo di ciò che sorge dalla distruzione, di ciò che non ha bisogno di essere carpito dal linguaggio».

Hai scelto di scrivere della tragedia di un incidente radioattivo a partire da una storia d’amore, come se racchiuso in ciò che può legare due persone ci fosse un potenziale di stravolgimento e morte che, nell’infinitamente piccolo, è della stessa natura di ciò che avviene con la contaminazione.
Da tanto tempo volevo raccontare l’amore come contagio. Penso che ogni relazione sia in qualche modo una storia dell’orrore, perché al di là del livello di distruttività o di armoniosità di ogni incontro, l’amore impone che i confini dell’io diventino estremamente labili e che la marea dell’inconscio sia condivisa, cosa che in sé è mostruosa, innaturale. In comune vengono messi sia il bene che il male, così tutto il marasma delle cose irrisolte, del nostro passato, delle necessità che non hanno incontrato soddisfazione viene rimesso in campo, alla ricerca di una riscrittura.

Tutto ciò non è controllabile. Il mio desiderio di raccontare questo ha incontrato il tema della radioattività. Su una rivista americana ho letto una storia che mi ha colpito: una donna che nel luogo più radioattivo del pianeta, nei pressi di una centrale nucleare, trova un bambino che non ha i genitali, non ha l’ombelico: è un essere. Decide di adottarlo, senza porsi delle domande, senza la necessità di catalogarlo. Penso che una delle mostruosità di questo tempo sia l’ossessione di catalogare tutto. Il miracolo di Alëšen’ka è che nasce dalla radioattività, dal veleno: è il miracolo di ciò che sorge dalla distruzione.

Tu scrivi: «parlare è sempre meglio del silenzio e del rumore del vento sui vetri». Nella lotta straziante in cui si trasforma l’amore tra Tamara e Vladimir accade che non smettono mai di cercare di parlare. Se fosse una proporzione matematica, come porresti l’amore alle parole?
Naturalmente da scrittrice mi pongo di continuo e ossessivamente il problema del significato delle parole e non in senso convenzionale: il ruolo delle parole non è sempre creativo, al contrario di quanto si crede comunemente. Solo a un certo livello le parole creano significato, altrimenti possono distruggerlo oppure non generare nulla, come nelle frasi fatte, nei cliché. La banalità del male si esplica molto bene nel litigio amoroso. Per Tamara parlare non ha un senso, ma è comunque più confortante del non senso del vento.

Scrivi che Tamara utilizzava il trucco per diventare: «un’altra così altra da passare inosservata persino a se stessa […] quando la tristezza puntualmente sarebbe venuta a prenderla non l’avrebbe riconosciuta più». Qual è il make-up più efficace per raggiungere questo obbiettivo?Non sono un’esperta di make up, ma questo è il modo in cui io stessa mi trucco. Non a caso, ogni volta che vado in TV chiedo di essere truccata così e incontro resistenza. Quello che uso io, il trucco teatrale, non è in voga, va di moda il naturale, che deve esaltare i pregi e correggere i difetti. È sacrosanta la necessità di accettarsi, ma ciò non significa che non si possa agire sul corpo, considerarlo come un punto di partenza e non una cosa data. Allo stesso modo in cui lavoriamo costantemente sulla nostra mente, ed essa si modifica ogni giorno, anche il corpo cambia e possiamo modificarlo col trucco.

Dell’incontro tra Tamara e Vladimir scrivi: «Dio solo sa perché l’aveva puntata, qual è la vera logica degli umani che si fissano con altri umani, quale incastro tremendo hanno fiutato». Esiste la possibilità che l’incastro non sia sempre tremendo? 
È tremenda la messa in comune di tutto. Ovviamente, ci sono persone che hanno esperienze pregresse più o meno difficili, ci sono miliardi di variabili, però perché ci si innamora di una persona? Sono dei motivi ciechi, dei non motivi: per esempio perché non si scelgono le persone che si stimano di più? Già questa assenza di motivazioni rende tremendo l’incastro.

Ma esistono amori meravigliosi ed esistono amicizie più intense delle relazioni erotiche, scevre dalle aspettative che caratterizzano le coppie. Il volere il bene dell’altro è una cosa altissima, superiore al voler stare con un altro, al bisogno di soddisfare un desiderio narcisistico di raggiungere qualcosa. Gli amori altissimi hanno a che fare col desiderare che l’altro stia bene senza che questo implichi nessun vantaggio personale, come può accadere a una madre per i figli. A me non interessa la maternità in sé, ma indagare quell’amore assoluto. In Fuoco al Cielo molti hanno visto la rappresentazione di una pietà in cui Alëšen’ka è il messia che nasce dai detriti dell’umanità.

Di Alëšen’ka descrivi con insistenza la mostruosità. Eppure Tamara, Irina, Vladimir sentono il desiderio di proteggerlo. Perché?
Penso che sia nostro dovere prenderci cura del lato mostruoso di noi ed è anche uno degli obbiettivi della psicanalisi, che non insegna a eliminare la mostruosità, ma a prendersene cura. Ci vogliono forza e intelligenza per prendersi cura dei mostri interiori: Tamara immediatamente abbraccia Alëšen’ka, perché lei ha sempre vissuto la propria mostruosità, accettandola.

In lei non c’è conflitto tra la propria morale e il suo mostro, perché vivendo nell’orrore ha dovuto decidere di guardare tutto. La sofferenza spesso ci induce a chiuderci, ma possiamo decidere che sia il contrario. Per Tamara è più semplice, lei è un personaggio straordinario, le interessa solo ciò che è assoluto, e consumare: le persone, la vita, se stessa.