Pur essendo durata molto di più dei famosi 15 minuti che lui stesso aveva preconizzato sarebbero toccati in sorte ad ognuno, anche la celebrità di Andy Warhol sembra oggi essersi un po’ appannata. O, almeno, questa è l’impressione che si ricava percorrendo le sale non particolarmente affollate della mostra a lui dedicata in corso alla Fabbrica del Vapore a Milano, mentre sempre nello stesso complesso, a pochi metri di distanza, i visitatori si accalcano per ammirare le tavole del fumettista romano Zerocalcare che la serie Strappare lungo i bordi trasmessa da Netflix nel 2021 ha contribuito a rendere popolarissimo, e non solo tra i giovani e i giovanissimi.
Va però detto, a onore del vero, che la scelta della sede espositiva, non propriamente la «Scala» dell’arte milanese, ma uno spazio polifunzionale dedicato alla cultura e al mondo giovanile che il Comune di Milano da una decina d’anni cerca continuamente di rilanciare senza mai riuscirci veramente, non sembra la più adeguata per quella che rimane una delle più importanti e influenti, oltre che quotate, figure artistiche del Novecento. A titolo di confronto, ricordiamo che nel 2004 l’ultima grande retrospettiva meneghina dedicata a Warhol era stata ospitata negli spazi ben più prestigiosi della Triennale, mentre nel 2013 la collezione di opere dell’artista di proprietà di Peter Brant era stata presentata a Palazzo Reale. Non si può nemmeno tacere il fatto che negli ultimi anni la Fabbrica del Vapore invece di distinguersi per la qualità, la novità e la coerenza delle proposte, ha finito per assomigliare sempre più a quegli sgangherati carrozzoni circensi d’antan che venivano annunciati dalla cantilena melliflua del «venghino, siori, venghino». Dalle opere di Leonardo da Vinci in 3D, alla realtà immersiva ispirata ai quadri di Magritte, dal finto Esercito di terracotta agli immancabili dinosauri ricostruiti a grandezza naturale, la storia espositiva recente della Fabbrica del Vapore appare improntata a quell’atmosfera del «vorrei ma non posso» tipica delle cittadine di provincia più che di una città che, a giusto titolo, è sempre stata considerata la capitale culturale oltre che economica d’Italia. E la mostra Andy Warhol, La pubblicità della forma non sembra deviare molto da questa linea.
Sarà forse anche per questo che sui manifesti gli organizzatori hanno pensato bene di affiancare al nome dell’artista quello di Achille Bonito Oliva, vecchia gloria della critica d’arte italiana che della mostra risulta però essere in effetti solo un co-curatore. Evidentemente, affacciandosi sul palcoscenico milanese, era importante cercare di dare qualche quarto di nobiltà curatoriale e un pedigree intellettuale un po’ più sostanzioso a un’operazione che da questo punto di vista appare piuttosto debole. Quelle proposte nella mostra sono infatti opere che provengono in gran parte da un’unica collezione privata italiana i cui titolari, detto per inciso, sono anche i promotori e i curatori del progetto. Oltretutto questa raccolta, seppure con qualche variazione e integrazione di opere provenienti da altre collezioni private, sta peregrinando da una parte all’altra dell’Italia ormai da diversi anni, avendo fatto tappa a Sarzana, Genova, Pontedera, Napoli, Roma e ora appunto Milano.
Certo, non si può non riconoscere che si tratti di una collezione ampia e che in essa siano presenti quasi tutti i soggetti che hanno reso celebre il principale esponente della Pop Art americana: dalle zuppe Campbell ai ritratti di Marylin, dai fiori agli incidenti automobilistici, dalle sedie elettriche all’Ultima cena di Leonardo. Tuttavia, a parte alcune eccezioni, si tratta sostanzialmente di un Warhol «minore». Quelle esposte sono infatti in gran parte opere su carta a cui si aggiungono numerose Polaroid e fotografie in bianco e nero oltre ad alcune curiosità e memorabilia, come la BMW M1 dipinta a mano dallo stesso Warhol nel 1975 proveniente dal BMW Museum di Monaco (unico prestito museale in mostra!). I dipinti, invece, sono poco più di una decina e quasi tutti di piccolo o medio formato. A questo si aggiunge una generale trasandatezza dell’allestimento – dall’accrochage approssimativo e caotico, alla qualità delle cornici e dell’infografica – ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, di un progetto espositivo che oltre a non aggiungere nulla alla conoscenza dell’opera di Warhol si limita a sfruttarne il grande valore iconico per attrarre visitatori.
Per commentare tutta l’operazione verrebbe allora voglia di lasciare la parola allo stesso Bonito Oliva, riprendendo un passaggio della recensione della mostra alla Triennale da lui scritta nel 2004 per «Repubblica». Un frammento di testo che, ovviamente, non è stato ripreso nel patchwork di scritti dello stesso Bonito Oliva, copiati, mischiati e incollati fra di loro per comporre il saggio in catalogo, in cui, tra l’altro, intere frasi compaiono più volte in punti diversi del testo (svista madornale dell’autore e editing distratto o raffinato omaggio alla ripetizione warholiana?). Le riflessioni di Bonito Oliva nel 2004 in ogni caso erano queste: «Il gran magazzino espositivo segnala l’iperconsumo di Warhol come icona, fino alla presentazione feticistica del suo scalpo (una delle parrucche). Questo ci consente un lamento, parafrasando Goya: il sonno della ragione genera mostre!»
Che dire? Aggirandoci nelle sale della Fabbrica del Vapore ci viene da pensare che nel frattempo si deve essere appisolato anche Bonito Oliva. A meno che questa mostra e quelle che l’hanno preceduta non si collochino all’interno di un raffinato gioco fondato sulla ripetizione, meccanismo visivo e principio ontologico con il quale Warhol ha rivoluzionato la nozione stessa di arte secondo il filosofo americano Arthur C. Danto. Lo stesso Warhol, a proposito della sua prassi artistica, ha affermato: «Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine. Penso che tutti dovrebbero amarsi. La Pop Art è amare le cose. Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina».
Ma se Warhol voleva improntare la sua prassi artistica e la sua vita alla ripetitività delle macchine, la realtà del nostro tempo ci confronta con un fenomeno diametralmente opposto. Sono infatti le macchine, attraverso il costante sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale, ad assumere e replicare comportamenti, riflessioni e atteggiamenti umani. Speriamo allora che in futuro non ci toccherà vedere alla Fabbrica del Vapore una mostra di opere ispirate a Warhol realizzate da un sistema d’intelligenza artificiale come Dall-e o Midjourney. Se non altro in quel caso gli organizzatori non avrebbero più la necessità di dover arruolare un critico affermato per giustificare l’operazione, gli basterebbe affidare la stesura del saggio in catalogo a ChatGPT.