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Strappo totale tra Musk e Trump

L’imprenditore critica pesantemente la nuova legge di bilancio voluta dal presidente americano che però segna un punto decisivo
/ 09/06/2025
Federico Rampini

Hanno provato per qualche giorno a gestire una separazione amichevole, Elon Musk e Donald Trump. Giovedì scorso, però, il divorzio è degenerato in uno scambio feroce di accuse, con Trump a dire che l’uomo più ricco del mondo era impazzito e Musk a sostenere che senza il suo aiuto finanziario l’ex amico non avrebbe vinto le elezioni. E un corollario velenosissimo: un tweet su X nel quale Musk sostiene che Trump faceva parte del giro di personaggi coinvolti nei crimini a sfondo sessuale legati a Jeffrey Edward Epstein, l’imprenditore e criminale statunitense, arrestato e condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori, morto suicida nel 2019.

Prima del putiferio finale, l’imprenditore di Tesla, StarLink e SpaceX aveva già definito «abominevole e disgustoso» il progetto di legge di bilancio che il Congresso sta discutendo, su proposta della Casa Bianca. Secondo lui, se passa quella manovra finanziaria aumenterà a dismisura un deficit pubblico. Nei fatti, ha ragione lui. E se da un lato questa valanga di accuse è destinata a confermare le paure che anche i mercati finanziari nutrono sulla politica di bilancio americana, d’altro lato questa polemica è rassicurante. Quello fra il multimiliardario di Big Tech e il presidente è uno scontro politico fra un liberista e un populista.

I primi passaggi nell’uscita di scena di Musk erano stati più soft. Secondo il suo annuncio iniziale «il tempo previsto» per la sua missione governativa si è concluso. Si riferisce al suo incarico alla guida del DOGE, il Department of Government Efficiency, che avrebbe dovuto tagliare le spese pubbliche improduttive e ridimensionare la burocrazia. Ma sullo sfondo pesa il giudizio negativo che Musk ha espresso pubblicamente sulla nuova legge di bilancio che Trump vuol fare approvare dal Congresso: non riduce deficit e debito federale come dovrebbe (anzi, rischia di aumentarli). Tra l’altro il disegno di legge colpisce direttamente anche gli interessi economici di Musk: prevede infatti la riduzione delle agevolazioni fiscali per i veicoli elettrici (vedi Tesla). L’imprenditore cercava di presentare questa sua ritirata in termini non conflittuali, affermava di rimanere in ottimi rapporti con Donald Trump. Ora è chiaro che non è affatto così.

La notizia è clamorosa solo in apparenza. È un colpo di scena per chi si era affezionato al «teorema dell’oligarchia»: l’idea che l’America con l’elezione di Trump avesse smesso di essere una democrazia, per diventare un regime diretto da un ristretto gruppo di plutocrati, capitalisti onnipotenti. Il teorema non è sopravvissuto neppure per pochi mesi alla prova della realtà. Musk, che doveva essere il numero uno dei presunti oligarchi, si ritira con la coda fra le gambe. Da un lato perché, lungi dall’arricchirlo, il sodalizio con Trump finora gli è costato caro (calo dei valori di Borsa; caduta del fatturato Tesla). D’altro lato perché la missione politica di cui Musk si era innamorato – una drastica cura dimagrante per lo Stato – si è arenata fra mille resistenze: l’alleanza fra le lobby del pubblico impiego e la magistratura ha bloccato molte delle sue decisioni.

Sembra dunque che sia stato vittima anche lui dell’illusione di molti imprenditori prestati alla politica, che hanno creduto ingenuamente di poter trasferire nel settore statale il decisionismo e la velocità delle aziende private. Ma va ricordato che anche dei tecnocrati abili e competenti, grandi conoscitori dell’amministrazione pubblica, sono stati sconfitti quando hanno cercato di attuare delle «spending review»: vengono in mente i casi italiani di Mario Monti, Mario Draghi, Carlo Cottarelli. Per restare all’America, invece, c’è il precedente di Ronald Reagan, il presidente repubblicano e liberista che negli anni Ottanta cercò di ridurre il Welfare e lanciò degli slogan celebri: «Lo Stato non è la soluzione, è il problema»; «la frase più spaventosa della lingua inglese è: sono il Governo e sono qui per aiutarti». Reagan era un grande comunicatore e un politico astuto, ma lasciò un settore pubblico poco cambiato rispetto a quello che aveva trovato. Ora alla lunga lista degli sconfitti viene ad aggiungersi pure Musk.

L’altro potere che ha sconfitto Musk sta alla Casa Bianca. Anche sul rapporto fra Trump e l’imprenditore di Tesla e StarLink si erano montate delle teorie: i due non possono andare d’accordo perché troppo egomaniaci. Pure questo luogo comune è stato smentito. Non c’è stato fra i due uno scontro di ego e di vanità personali. La battaglia è stata politica, e Trump l’ha vinta subito. Il nodo è proprio quella manovra di bilancio che affronta l’iter dell’approvazione al Congresso. Musk avrebbe voluto trovarci più robusti tagli di spesa, una riduzione drastica del disavanzo pubblico. Questa sua attesa era coerente con il suo liberismo, la fede nella superiorità del mercato, la diffidenza verso lo statalismo. Trump invece, dovendo scegliere fra l’ideologia di Musk – che ha qualche alleato in seno al «vecchio» establishment repubblicano – e i desideri della base operaia che lo ha riportato alla Casa Bianca, non ha esitato. In Trump l’istinto populista prevale sull’ideologia. La sua manovra di bilancio salvaguarda le voci principali del Welfare, dalla sanità pubblica (Medicaid per i meno abbienti e Medicare per i pensionati) alle pensioni della Social Security. I tagli di bilancio sono modesti, peraltro vanificati dall’aumento delle spese militari e per gli interessi sul debito.

La prevalenza del populismo in Trump equivale a una vittoria della sinistra. Dopo la crisi finanziaria del 2008, si affermarono a sinistra le dottrine economiche che incoraggiavano a fare deficit senza limiti e a stampare moneta per combattere la recessione. La Modern Monetary Theory, ad esempio, promuoveva l’idea che le banche centrali debbono aumentare la moneta in circolazione e spingere gli interessi verso lo zero. Fu condotta, poi, una vigorosa battaglia ideologica contro il rigorismo nella finanza pubblica: per esempio contestando, in Europa, ogni legittimità per i parametri di Maastricht, Patti di stabilità e altre rigidità di bilancio. Idee sostenute dalla sinistra di Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Robert Reich, Alexandria Ocasio Cortez. Per il vecchio partito repubblicano erano inaccettabili. Trump però ha cambiato la natura del Grand Old Party, ne ha fatto un partito popolare e populista. La trasformazione è avvenuta anche sul piano delle idee: Trump vorrebbe una Federal Reserve che spinga gli interessi più in basso, e difende una parte della spesa sociale contro chi (come Musk) vorrebbe tagliarla.

Per reagire al protezionismo di Trump, e al suo disinteresse verso la difesa dell’Europa, la Germania di Friederich Merz sta anch’essa abbandonando l’ortodossia economica. Con la riforma costituzionale Berlino rinnega le rigidità di spesa pubblica: lo fa per difendersi dalla Russia, e per rilanciare la domanda interna. Il populismo economico di Trump così ha ricadute anche al di fuori dello scenario americano. Musk aveva sperato in un altro percorso. Ma i suoi miliardi e il suo social X non spostano voti quanto le pensioni e la sanità: su questo l’istinto di Trump probabilmente è più pragmatico. L’altro mito che esce distrutto è quello sullo strapotere mediatico di Musk. Possedere X non gli ha consentito di capire il prezzo che la Tesla avrebbe pagato per le sue scelte politiche: da eroe dell’ambientalismo è passato ad essere considerato un fascista i cui prodotti vanno boicottati o perfino vandalizzati. La proprietà di un social media non gli ha permesso di controllare o manipolare l’opinione pubblica.