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Dove e quando

Shirin Neshat, Body of Evidence, Milano, PAC (Via Palestro 14). Fino all’8 giugno 2025. Orari: ma-do 10.00-19.30; giovedì 10.00-22.30; lunedì chiuso. pacmilano.it

Shirin Neshat, Rebellious Silence, 1994 (Courtesy of the artist and Gladstone Gall. Copyright Shirin Neshat)

Shirin Neshat, Fervor, 2000 (Copyright Shirin Neshat Courtesy l’artista e Gladstone Gallery)


Shirin Neshat, sospesa nella terra di nessuno

Il PAC di Milano ospita i lavori di un’artista iraniana che si è spesso dedicata alla figura femminile
/ 05/05/2025
Elio Schenini

Se c’è un elemento ricorrente nelle installazioni video di Shirin Neshat, come osserva giustamente Adam Geczy nel suo contributo per il catalogo della mostra dedicata all’artista di origine iraniana attualmente in corso al PAC di Milano, è la frequente presenza come protagonista principale di una figura femminile che quasi sempre appare confinata nella propria solitudine.

Anche quando sono circondate da altre persone, le donne al centro dei video di Neshat risultano infatti avvolte in un algido e solenne distacco che le separa e le isola dal mondo all’interno del quale si muovono.

Per Geczy questa condizione, che da un lato richiama la solitudine dell’artista romantico, può essere interpretata come la manifestazione di uno stato di alienazione psicologica rispetto a un contesto di estraneità e d’imposizione, in questo caso quello del fondamentalismo islamico, con le cui rigide regole patriarcali le donne iraniane devono confrontarsi da molti decenni.

Per quanto il riferimento alla condizione femminile in Iran sia indubbiamente pertinente è però evidente che l’isolamento che traspare dalle opere di Shirin Neshat abbia un fondamento molto più intimo e personale nella diretta esperienza di vita dell’artista. Del resto, lo stretto legame tra la sua vicenda personale e la sua decisione di intraprendere una carriera artistica è stato evidenziato in molte interviste dall’artista che ha però sempre negato l’esistenza di espliciti e diretti riferimenti autobiografici nel suo lavoro.

Nata nel 1953 a Qazvin in una famiglia appartenente al ceto medio-alto, nel 1975 Shirin Neshat decise di trasferirsi in California per studiare arte. Dopo la rivoluzione islamica del 1979 e l’avvento al potere dell’Ayatollah Khomeini, la sua famiglia, che aveva sempre sostenuto lo scià, perse il proprio status economico e sociale, mentre lei decise di rimanere definitivamente negli Stati Uniti e si trasferì a New York.

Fu solo nel 1990, dopo la morte di Khomeini, che ebbe modo di ritornare per la prima volta in Iran. In quell’occasione, osservando le enormi trasformazioni che avevano segnato il Paese in poco più di un decennio, nacque in lei l’idea di una serie di lavori artistici che nel giro di pochi anni l’avrebbero proiettata ai vertici della scena artistica internazionale.

Abbandonata la pittura, a cui si era dedicata con esiti piuttosto mediocri, come ricorda lei stessa, Shirin Neshat realizzò, tra il 1993 e il 1997, la serie fotografica Women of Allah. Ormai celebri e presenti nelle collezioni dei principali musei del mondo, queste fotografie raffigurano delle donne – in molti casi si tratta dell’artista stessa – avvolte in un chador nero e spesso affiancate da armi, quali fucili e pistole.

Le parti del corpo scoperte di queste figure – mani, volto e piedi – sono invece ricoperte da scritte in farsi che simulano la pratica dei tatuaggi festivi diffusi in Medioriente, ma che l’artista ha tracciato con l’inchiostro direttamente sulla superficie delle fotografie. Incomprensibili per lo spettatore occidentale, le scritte riprendono passaggi di poemi contemporanei, rispecchiando la sostanziale ambiguità di questi ritratti femminili che risultano al contempo minacciosi e fragili.

In alcune opere compaiono infatti frammenti della poetessa Forugh Farrokhzad, che in quegli anni si batteva contro il dominio maschile e che rivendicava la propria femminilità, parlando liberamente del proprio corpo, della propria sessualità e delle proprie emozioni, mentre in altre troviamo invece i versi di Tahereh Saffarzadeh, una poetessa che negli stessi anni dava voce a quelle donne che avevano visto la rivoluzione islamica come una liberazione, tanto da inneggiare al martirio e da considerare il velo non come uno strumento di oppressione, ma di emancipazione, visto che celando la sessualità impediva la loro trasformazione in puro oggetto del desiderio maschile a differenza di quanto accadeva nella cultura occidentale dove, nello spazio pubblico, la donna era continuamente spogliata.

Grazie all’attualità crescente della questione mediorientale e all’emergere di un sentimento di radicale e diffusa contrapposizione tra valori occidentali e mondo islamico, Women of Allah incontrò immediatamente un grande successo e permise a Shirin Neshat di esporre i propri lavori nei principali musei di tutto il mondo. Un successo che venne coronato nel 1999 dal Leone d’oro alla Biennale di Venezia.

Tuttavia, furono anche molte le voci critiche che si levarono per contestare un lavoro che rispetto alla tematica che affrontava appariva estremamente estetizzante e che secondo alcuni non sfuggiva agli stereotipi di un esotismo di maniera, finendo per rafforzare i pregiudizi dello spettatore occidentale.

L’isolamento dell’artista, ormai sospesa in quella terra di nessuno che è propria degli esuli, né totalmente assimilabile alla nuova cultura occidentale ma, allo stesso tempo, ormai da troppo tempo lontana dal mondo in cui aveva avuto origine, venne confermato dal fatto che il suo lavoro fu condannato sia dal governo iraniano che da molti esponenti della diaspora iraniana. Anche a causa delle critiche sollevate da Women of Allah l’artista, alla ricerca di una modalità maggiormente narrativa, decise alla fine degli anni Novanta di abbandonare la fotografia e di spingersi nel campo dell’immagine in movimento.

Le sue opere filmiche, caratterizzate da un bianco e nero raffinato e visivamente curato in ogni dettaglio, sono diventate da quel momento lo strumento principale con cui dare corpo alle sue riflessioni sulla condizione della donna nell’Islam e più in generale sulle dinamiche tra i generi e sul rapporto tra individuo e strutture sociali.

Questa ricerca di una dimensione narrativa, che l’ha vista avventurarsi successivamente anche nel campo della cinematografia – assieme al compagno, il regista Shoja Azari, anche lui di origine iraniana, ha realizzato due lungometraggi, uno dei quali premiato con il Leone d’argento a Venezia – si è tradotta negli scenari onirici e nelle ambientazioni atemporali di universo in cui reale e simbolico si mescolano sulla base di un approccio stilistico che lei definisce «realismo magico».

Per quanto politicamente improntato, il suo lavoro non è quindi strettamente assimilabile all’attivismo oggi così diffuso in ambito artistico. Tuttavia è forse proprio perché non sono ancorate in un preciso e ben definito contesto storico che le solitarie protagoniste dei suoi video non riescono a sfuggire, come ha osservato Shohreh Shakoory, una giovane storica dell’arte iraniana che vive in Germania, agli stereotipi e a dare veramente voce in Occidente alle migliaia di donne che, anche dopo l’uccisione nel 2022 di Mahsa Amini, continuano ogni giorno a lottare in Iran per sfuggire al dominio opprimente del patriarcato unendo i loro corpi in un grande abbraccio collettivo.