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Bibliografia

Sempre presso Adelphi, sono stati pubblicati: Il dito in bocca (1968), L’angelo custode (1971), Le statue d’acqua (1980), I beati anni del castigo (1989), La paura del cielo (1994), Proleterka (2001), Vite congetturali (2009), Sono il fratello di XX (2014).


La mossa del gatto e l’arte del distacco

Nella letteratura di Fleur Jaeggy, in un gioco di distanze emerge un mix di precisione glaciale e tensione emotiva
/ 14/04/2025
Mara Travella

Chiunque abbia già osservato un gatto giocare con la propria preda – una farfalla, una lucertola, una piuma – si sarà accorto che vi è un che di crudele, leggermente sadico e allo stesso tempo estremamente naturale (così com’è giusto che sia per gli animali) nel suo comportamento: il gatto, infatti, dopo aver atteso il momento giusto per l’assalto e aver ripetutamente artigliato il proprio bottino, rinuncia al colpo finale. Si allontana, la coda dritta, attirato da tutt’altro.

L’immagine dell’animale che, dopo essersi divertito con la sua preda, abbandona repentinamente il suo punto di interesse, si trova annidata in Sono il fratello di XX (Adelphi, 2014), e si presta benissimo a illuminare la poetica della zurighese Fleur Jaeggy; un’autrice – insignita quest’anno del Gran premio svizzero di letteratura – a cui la critica ha riconosciuto sin dal suo romanzo d’esordio, Il dito in bocca (Adelphi, 1968), la precisione nella scrittura, la capacità di utilizzare frasi brevi, taglienti come piccole schegge sottopelle che, anche a distanza, continuano a far male.

Tornando al gatto, Jaeggy sceglie nel suo racconto un termine tedesco per definire il comportamento del felino: übersprung, ovvero «volgersi altrove, passare ad altro»; e, poche righe di seguito, afferma che tra i modi mentali dello scrivere (e in questo, appunto, c’è molto di suo) vi è da una parte l’evasione e, allo stesso tempo, «la caccia», la ricerca della preda, o parola, perfetta. La voce della protagonista del suo romanzo più fortunato, I beati anni del castigo (Adelphi, 1989), asserisce qualcosa di analogo: «Sono soltanto le distrazioni, la vaghezza, la distanza, che ci avvicinano al bersaglio, è il bersaglio che ci colpisce».

Leggere le opere dell’autrice elvetica significa dunque entrare in confidenza con questo movimento di avvicinamento e insieme allontanamento dal proprio campo d’interesse. Ricerca del dettaglio, volontà di rivelare la carne sotto la pelle, desiderio di nominare le emozioni anche più spiacevoli e, parallelamente, capacità di mantenere la distanza di sicurezza adeguata dal mondo, quasi conservando una parete divisoria. Per definire lo stile dell’autrice, la critica ha impiegato il parallelismo con il freddo, e per questa ragione si è parlato di punto di vista «glaciale», impietoso. Jeaggy, al freddo ha abituato le sue lettrici e i suoi lettori e, attraverso i suoi numerosi romanzi e racconti, si è addentrata in spazi chiusi e spesso asettici cui si accompagnano personaggi altrettanto criptici, mantenendo sempre, sotto l’apparente tranquillità, un’atmosfera sinistra, di morte imminente.

Il gioco del doppio

È noto come il primo romanzo di Jaeggy, Il dito in bocca (1968), sia stato apprezzato e in seguito passato all’Adelphi dall’autrice austriaca Ingeborg Bachmann, a cui di nuovo nell’ultima raccolta adelphiana (quella del gatto) è dedicato un altro breve racconto, il quale narra la tragica morte di Bachmann avvenuta in seguito a un incendio in casa sua. Tra le due donne si instaura un’affinità letteraria e un’amicizia intensa, carica di complicità, risate e silenzi. È proprio il silenzio quello che caratterizza le rare interviste rilasciate dall’autrice, restìa a rivelare qualcosa di sé.

E l’assenza di parole definisce sovente anche le relazioni tra i personaggi dei suoi libri: il non detto si fa carico di simbologie e allusioni, in un gioco di assenze-presenze che inquieta e travolge. Di frequente sono inoltre le coppie a essere protagoniste delle sue storie – si pensi, a X. e a Frédérique de I beati anni (Adelphi, 1989), ai gemelli nell’omonimo racconto della raccolta La paura del cielo (Adelphi, 1994), al padre e alla figlia di Proleterka (Adelphi, 2001), a fratello e sorella in Sono il fratello di XX (Adelphi, 2014) – richiamando attraverso il binomio l’alternarsi e il sovrapporsi tra realtà e apparenza. Tra gli oggetti continuamente evocati nelle sue pagine non si può dunque che trovare lo specchio, simbolo per eccellenza del doppio.

Come una burattinaia

Tali rapporti, indagati senza timore di toccare i sentimenti più spiacevoli e meschini, non possono che situarsi all’interno di geografie opprimenti, non di rado elvetiche. Il paesaggio bucolico di certe campagne svizzere è infatti sfondo prediletto di diverse sue storie e «La Confederazione» è più volte citata, non senza ironia, come la detentrice della ragione ultima («La Confederazione così ha organizzato. Nel migliore dei modi», si legge nel racconto La vecchia vanesia). Le passeggiate intorno al lago o il giro di un’isola, da felice evasione si trasformano in un «idillio ossessivo». Gli spazi prediletti di Fleur Jaeggy ritornano richiamandosi all’interno delle sue opere; così la clinica dove è morto Robert Walser, citata in apertura de I beati anni è evocata nell’ultima raccolta di racconti.

Nella narrativa di Jaeggy gli spazi borghesi si rivelano come prigioni. Sono luoghi in cui vige una ferrea routine, una disciplina (sovente religiosa e di stampo cattolico-protestante) che protegge e annienta, registrata concentrando l’attenzione sui dettagli minimi («la selvaggia clandestinità delle cose semplici», come è definita dalla voce narrante di Una moglie). A portare in avanti la narrazione sono dunque moti quasi impercettibili, dialoghi brevissimi, azioni che avvengono nello spazio di una parola. Come una burattinaia (la metafora delle marionette non è anodina) la voce narrante controlla le figure sulla scena: ogni movimento, ogni emozione è misurata, precisa, definita. Un critico come Padre Giovanni Pozzi, non per nulla, aveva individuato nella sineddoche la figura retorica favorita dall’autrice, la parte per il tutto, sintomatica di tale ricerca dell’essenziale.

Una feroce allegria

Come già nell’ossimoro che dà titolo al libro dell’1989 (I beati anni del castigo), lo stile dell’autrice è continuamente giocato sulle opposizioni: ogni affermazione può essere contraddetta, dietro ogni gesto anche gentile può celarsi la minaccia, non esiste verità se non quella che viene raccontata. Le sue protagoniste sono spesso donne, spesso adolescenti, come se l’autrice avesse individuato nell’adolescenza il tempo ideale cui far corrispondere vicende in continuo mutamento: quale migliore periodo, se non quello tra l’infanzia e l’età adulta, per descrivere il fluttuare delle emozioni? Costellata di figure quasi marmoree, di descrizioni in cui qualcosa sempre stride, l’opera jaeggiana, pur avendo come riferimento luoghi reali, pare come sospesa nel tempo, fuori dal tempo. Anche questo, in definitiva, contribuisce a rendere sempre attuali le sue storie, e godibile la loro lettura.

Fleur Jaeggy non ha smesso di confrontarsi con lo stare sempre in bilico, ponendo molti interrogativi e dando poche risposte, e questo, credo, è proprio solo alla grande letteratura.