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La fine di un Papa: bisogna parlarne
Chiesa cattolica, in un contesto così complesso c’è ancora posto per un successore di Pietro fragile, costretto a dosare le forze?
Giorgio Bernardelli
Le telecamere sono puntate sul Policlinico Gemelli. Ogni sera i notiziari soppesano con cura le parole dei bollettini medici sulle condizioni di salute di papa Francesco, ricoverato all’ultimo piano del grande ospedale dal 14 febbraio. Nell’anno che richiama a Roma milioni di pellegrini per il Giubileo, il pontefice ottantottenne fa i conti con una polmonite bilaterale; e lo stesso entourage vaticano non fa nulla per nascondere la gravità delle sue condizioni. Al momento di mandare in stampa Azione, la salute del Papa risultava stazionaria, ma con prognosi riservata.
All’improvviso il Papa delle interviste tv e dei viaggi in capo al mondo anche sulla sedia a rotelle, è costretto a stare chiuso in una stanza d’ospedale. E le lancette dell’orologio tornano indietro ai due precedenti della storia recente: la lunga agonia di Giovanni Paolo II vent’anni fa e la scelta dirompente di Benedetto XVI che nel 2013 decise di percorrere un’altra strada, con il gesto delle sue dimissioni. Scriviamo in un momento in cui dai medici sembra trapelare un po’ più di ottimismo sul decorso della malattia, anche se le incognite sono tante e la prognosi rimane riservata. Le Chiese cattoliche di tutto il mondo – e anche tanti uomini e donne di altre religioni – pregano per la salute del Papa che ha voluto mettere al primo posto la fratellanza umana e che negli ultimi anni ha alzato la voce per denunciare la deriva delle guerre tornate prepotentemente a ferire il mondo. Non più di un paio di settimane fa, poi, con un gesto forte, ha scritto una lettera ai vescovi cattolici degli Stati Uniti suonata come una condanna diretta a uno dei punti chiave del trumpismo: le espulsioni in catene dagli Stati Uniti dei migranti irregolari, dipinti indiscriminatamente come criminali. Si capisce perché in molti, anche nel mondo laico, oggi confessino apertamente il loro timore di perdere un punto di riferimento come papa Francesco proprio nel momento in cui sulla scena globale ogni cosa pare tornata in discussione.
Da una polmonite bilaterale si può guarire, anche a ottantotto anni. Ma la domanda inevitabile che questa situazione porta con sé è: che cosa può succedere ora? E, in una Chiesa cattolica dove con lui la figura del Papa è diventata quasi un mondo a sé, spesso schierata in aperta rottura con la tradizione e il suo «apparato», che cosa succederà dopo? In un cattolicesimo dove il pontefice ci ha abituato a parlare soprattutto a braccio, senza misurare le parole e buttando avanti il suo carisma personale, c’è ancora posto per un successore di Pietro fragile, costretto a dosare le forze?
Più volte in questi anni papa Francesco ha fatto intendere di guardare alle dimissioni come a un’ipotesi lontana: l’ha legata sostanzialmente a un’impossibilità di guidare la Chiesa con lucidità più che a una menomazione fisica. Ha tante volte ironizzato sui cardinali che dietro le quinte discutono del prossimo conclave o su quanti «pregano non a favore, ma contro di lui» (pare lo abbia fatto anche con Giorgia Meloni quando è andata a visitalo al Gemelli). La questione, però, adesso si fa concreta: può un Papa di oggi governare una Chiesa tutt’altro che compatta dietro di lui da una stanza chiusa, lontano dai fedeli?
Molto dipende evidentemente dal decorso della sua malattia. Di certo, rispetto al passato, ha alcuni strumenti in più a disposizione: proprio il modo molto più diretto con cui ha utilizzato in questi anni i media, per esempio, potrebbe rivelarsi una risorsa per portare avanti il suo rapporto senza filtri con la gente, anche in condizioni di salute molto più precarie rispetto a quelle in cui lo abbiamo visto fino ad oggi. Se supererà la fase acuta della malattia, il suo potrebbe diventare un pontificato che privilegia le apparizioni televisive rispetto alle lunghe liturgie in mezzo alla folla. Ma è questo ciò che i cattolici si aspettano da un Papa?
Sono le domande vere che sono aleggiate in queste settimane intorno al Policlinico Gemelli. Domande su cui nella Chiesa cattolica si parla sottovoce: la questione della fase finale di un pontificato, infatti, resta un grande tabù. Anche quando, come oggi, il Papa ha 88 anni prevale la retorica del «pastore che non si risparmia», si esalta il fatto che sta in piazza San Pietro al freddo fino all’ultimo nonostante gli evidenti disturbi respiratori, mette in cantiere un viaggio in Turchia che avrebbe dovuto svolgersi nel mese di maggio se non fosse diventato ormai fisicamente impossibile. Persino nei bollettini che arrivano dal Policlinico Gemelli ci si è affrettati a precisare che il Papa «lavora» anche nella sua stanza d’ospedale. Viene alla mente Giovanni Paolo II che ai suoi collaboratori negli ultimi anni ripeteva che «Cristo non può scendere dalla croce» e che, drammaticamente, arrivò addirittura ad affacciarsi alla finestra di piazza San Pietro senza riuscire a far uscire delle parole dalla sua bocca.
Joseph Ratzinger – che questo travaglio nel 2005 lo aveva vissuto dalle stanze vaticane – scelse un’uscita di scena diversa, confermandosi in questo un uomo molto più moderno di quanto si pensi. La vita si allunga, anche per i pontefici. Ma le nuove frontiere della vecchiaia sono compatibili con l’icona del Papa supereroe, che incontra tutti, è aggiornato su tutto e dice la sua con l’ambizione di orientare il cammino del mondo? Sono domande a cui la Chiesa fatica a dare una risposta, perché richiederebbero un ulteriore passo nell’umanizzazione della figura del pontefice che – nonostante la «vicinanza» di papa Francesco alla gente e la sua allergia per i rituali di corte – resta comunque per i cattolici il «grande condottiero» (o in termini teologici «il vicario di Cristo in terra»). Lo stesso «spirito dei tempi», del resto, non è incline a riflessioni di questo tipo, con leadership politiche che da un capo all’altro del mondo si ritraggono come personalità insostituibili.
Forse proprio per questo – però – la Chiesa cattolica oggi dovrebbe avere il coraggio di affrontare questo tema. Un’istituzione che esiste da Duemila anni e che, nella sua autocomprensione, mette al centro l’azione dello Spirito Santo, potrebbe dare una testimonianza importante se accettasse di affrontare senza falsi pudori il tema della vecchiaia di un Papa, non lasciando le decisioni all’arbitrio del singolo successore di Pietro. Benedetto XVI ha indicato una strada: quella del ritiro in un silenzio durato quasi dieci anni; non è detto che sia l’unica. Ma quella Sinodalità su cui proprio papa Francesco insiste tanto oggi passa anche da qui.