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Dove e quando

Picasso lo straniero, Milano, Palazzo Reale. Fino al 2 febbraio 2025. Orari: ma-do 10.00-19.30; gio 10.00-22.30. Info: www.palazzorealemilano.it


L’arte dell’esilio di Picasso: genio senza patria

La mostra a Palazzo Reale di Milano indaga l’opera del pittore catalano alla luce della sua condizione di straniero
/ 04/11/2024
Elio Schenini

Non esiste nessun altro artista del Novecento le cui opere siano così capillarmente presenti nei principali musei d’arte di tutto il mondo come Picasso. Prolifico come pochi, anche grazie alla voracità con cui ha assimilato nel corso di tutta la sua vita tradizioni iconografiche diversissime che gli hanno permesso di rinnovarsi costantemente mantenendo però una singolarità di accento inconfondibile, l’artista spagnolo incarna in maniera emblematica il cosmopolitismo e lo spirito universalistico dell’arte moderna.

Eppure, come ha ampiamente documentato Annie Cohen-Solal in un bel libro intitolato Picasso – Una vita da straniero (Marsilio, 2024; originale: Un étranger nommé Picasso, Fayard, 2021), per gran parte della sua vita Picasso ha dovuto sottostare, in quanto straniero, alle limitazioni impostegli da un’Europa ancora rigidamente ingessata nelle identità nazionali di origine ottocentesca e sorvegliata da occhiute e poliziesche burocrazie. Questa condizione non caratterizza solo gli esordi della sua carriera – quando Pablo Ruiz Picasso era ancora un giovane e sconosciuto pittore catalano che, come tanti suoi connazionali, si era trasferito nella capitale francese in cerca di fortuna – ma anche gli anni della piena maturità, quando musei e collezionisti americani ed europei si contendevano le sue opere, tra cui le famose Demoiselles d’Avignon acquistate dal MOMA di New York nel 1937, mentre lui – che tra il 1904 e il 1909 aveva dovuto condividere con altri protagonisti dell’arte d’avanguardia gli spazi angusti e fatiscenti del Bateau Lavoir di Montmartre – si poteva ormai permettere lussi prima inimmaginabili come comprare il castello di Boisgeloup in Normandia o avere quattro domestici al suo servizio.

A dispetto di tutto ciò, per quasi un cinquantennio Picasso non è stato altro che uno straniero per le autorità francesi. Non importava che fosse un artista conosciuto in tutto il mondo e un esponente di spicco dell’arte moderna, per la polizia era una persona da tenere sotto sorveglianza e da guardare con diffidenza e sospetto in primo luogo perché straniero, poi perché artista d’avanguardia e infine perché vicino ad ambienti politici di sinistra. È anche per questo motivo che Picasso dopo il suo trasferimento a Parigi decise di abbandonare il patronimico Ruiz, che lo identificava immediatamente come spagnolo, preferendo usare da quel momento il cognome materno che – essendo meno facilmente individuabile come cognome di origine italiana – appariva più adatto alla postura mimetica che il processo di integrazione nel nuovo Paese richiedeva.

Ispirata dal libro di Annie Choen-Solal, non a caso ne è lei stessa la curatrice, la mostra Picasso lo straniero in corso a Palazzo Reale a Milano ha il merito di riuscire a inquadrare da una prospettiva inedita l’universo Picasso, già ampiamente analizzato in ogni suo più recondito anfratto da una miriade di pubblicazioni e mostre. Non solo, con la sua ricerca, che ha preso avvio scandagliando gli archivi della polizia francese, Annie Choen-Solal mette in campo un approccio rigoroso e impegnato che rifiuta l’estetismo fine a sé stesso con il quale si guarda spesso alle opere di figure ipermitizzate come quella di Picasso, per contestualizzare le quali ci si limita di solito a richiamare la fitta e spesso sapida, ma sostanzialmente innocua, aneddotica biografica. In un periodo in cui il tema delle migrazioni è all’ordine del giorno – ma a ben vedere quando mai la storia dell’umanità non è stata una storia di migrazioni? – la mostra, come sottolinea la curatrice, si propone di evidenziare le strategie di ibridazione artistica con le quali Picasso ha contribuito a mandare «in frantumi le frontiere tradizionali che separano gli stati per instaurare quelle che, parafrasando l’antropologo Arjun Appadurai, potremmo chiamare le forme culturali cosmopolite del mondo contemporaneo».

Se un limite si può trovare in questo progetto che interseca storia sociale e storia dell’arte è quello di adattarsi meglio alle pagine di un libro che non alle sale di uno spazio espositivo. Anche perché in casi come questo, per ovvie ragioni, non sempre è possibile ottenere in prestito tutte le opere necessarie a illustrare il racconto che la mostra intende dispiegare. E non ci riferiamo unicamente a quello straordinario e attualissimo compianto sulle vittime civili di ogni guerra rappresentato da Guernica, dipinto che Milano ha avuto la fortuna di ospitare nel 1953 proprio a Palazzo Reale, ma che negli ultimi decenni, per ragioni di conservazione, molto raramente ha lasciato le sale del Museo Reina Sofia di Madrid. Ci riferiamo anche ad alcuni dei capolavori del periodo blu e del periodo rosa, in cui compare quell’umanità «minore» fatta di saltimbanchi, prostitute e mendicanti che popolavano le stesse periferie parigine, in cui Picasso, al pari di migliaia di altri emigranti, trascorreva le proprie giornate; capolavori quali la Famiglia di saltimbanchi conservata a Washington, oppure come Giovane acrobata sulla palla del Museo Puskin di Mosca. Tutte opere che evidentemente a Milano non ci sono e che al massimo vengono evocate da studi preparatori, da riproduzioni o da scatti dell’epoca, come nel caso di Guernica, di cui possiamo osservare la genesi nelle fotografie che Dora Maar ha scattato a Picasso mentre la stava dipingendo.

Ma a parte queste inevitabili mancanze, la mostra, grazie alla fondamentale collaborazione del Musée Picasso di Parigi, riesce a tratteggiare attraverso un nutrito numero di opere e di materiali documentali una vicenda poco nota di cui è protagonista uno dei maggiori artisti del Novecento. Una vicenda che prende avvio con un rapporto di polizia del 1901, nel quale Picasso venne accusato in maniera sommaria e sulla base di considerazioni del tutto arbitrarie, di essere un anarchico, e che si conclude nel 1940 quando l’artista, che in quel difficile momento avvertiva la vulnerabilità connessa al proprio statuto di straniero, si vide rifiutare la cittadinanza francese. Questo rifiuto accomuna Picasso a un altro genio dell’arte del XX secolo, anche lui iscritto dal regime nazista tra le fila degli artisti degenerati: Paul Klee. Quando nel giugno del 1940 Klee morì in una clinica di Muralto, mentre la guerra si stava diffondendo a macchia d’olio in Europa, la sua richiesta di naturalizzazione giaceva ancora in uno dei cassetti dell’ufficio per gli stranieri del Canton Berna, continuamente procrastinata dalle autorità svizzere che prendevano tempo per evitare di affrontare il «problema» rappresentato da quell’artista che, secondo un rapporto di polizia, con la sua arte minacciava le «sane idee della popolazione».