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«Pagheremo per il dolore dei palestinesi»
Alcune testimonianze di giovani israeliani che rifiutano di arruolarsi andando incontro alla prigione militare
Angela Nocioni
Da domani – martedì 28 maggio – Spagna, Norvegia e Irlanda riconosceranno ufficialmente lo Stato palestinese. Dal canto suo la Svizzera ha chiarito: «Berna sostiene da anni la creazione di uno Stato palestinese sovrano sulla base dei confini del 1967. Stato che viva fianco a fianco ad Israele in pace e sicurezza». Al momento però «mancano le condizioni» per procedere in questa direzione. Intanto la guerra in Medio Oriente continua, con il suo immenso carico di morti (soprattutto a Gaza) e disperazione. Ma dal lato israeliano c’è anche chi si rifiuta di combattere. Si tratta di ragazzi e ragazze che finiscono in carcere per le loro convinzioni. Dicono: «Mesarvot!», ovvero «Ci rifiutiamo!». Vanno in cella ripetutamente: vengono condannati a 4, 5, 6 settimane di prigione poi escono in libertà vigilata fino a nuova sentenza. Hai cambiato idea? «No, io mi rifiuto», è la risposta. E arriva la seconda, la terza, la quarta condanna. Ne avevamo già parlato sull’edizione del 4 marzo 2024 («Quel rifiuto che salva l’anima»), oggi vi proponiamo qualche testimonianza. Alla fine dell’aprile scorso Sofia Orr, 18 anni, è stata condannata a 45 giorni di cella e altri 15 di libertà vigilata per la sua obiezione di coscienza. Identica sentenza per Tal Mitnick, stessa età. Per lui è la quarta condanna, finora è stato in carcere militare 150 giorni. Dalla cella scrivono perché sono in prigione e non a combattere con l’uniforme dell’esercito del loro Paese addosso.
Ben Arat, anche lui 18enne, ad aprile era atteso al campo d’addestramento di Teal Ahover, nei dintorni di Tel Aviv. Si è presentato e ha detto: «Io mi rifiuto». E ha reso pubblici i motivi della sua scelta in una lettera in cui si legge: «L’unico strumento che conosciamo è quello militare. Questo è il motivo per cui la soluzione a ogni problema deve essere militare. Ma la nostra strategia di deterrenza non si è dimostrata efficace. Il terrorismo non si può fermare con le minacce, perché i terroristi non hanno molto da perdere. Per di più l’uccisione senza precedenti di civili innocenti a Gaza, la fame, la malattia e la distruzione di proprietà non fanno che alimentare la fiamma dell’odio e del terrore di Hamas». E la stoccata terribile: «Prima o poi pagheremo per il dolore dei palestinesi (...). Mi oppongo alle uccisioni insensate, mi oppongo alla scelta di far morire persone di fame e di malattie, mi oppongo al sacrificio di soldati, civili e ostaggi per una guerra che non può e non vuole raggiungere gli obiettivi dichiarati e che potrebbe degenerare in una guerra regionale. Per queste e per altre ragioni, rifiuto di arruolarmi». È in attesa della prossima sentenza di prolungamento della detenzione.
Sofia Orr il 25 febbraio si è presentata allo stesso campo di arruolamento e ha detto che rifiutava di indossare la divisa per protestare contro la guerra a Gaza e l’occupazione. Non è andata da sola, l’hanno accompagnata all’ingresso un gruppo di attivisti di Mesarvot, la rete di sostegno agli obiettori di coscienza. Anche lei ha fatto della sua dichiarazione un testo pubblico. C’è scritto: «Rifiuto di arruolarmi per dimostrare che il cambiamento è necessario e possibile, per la sicurezza di tutti noi in Israele e in Palestina e in nome di un’empatia che non è limitata dall’identità nazionale. Mi rifiuto di arruolarmi perché voglio creare una realtà in cui tutti i bambini tra il fiume Giordano e il mare possano sognare senza gabbie».
Dalla cella, Sofia Orr ha scritto una lettera sui palestinesi uccisi mentre cercavano di procurarsi qualcosa da mangiare. «In una recente visita del mio avvocato – vi si legge – ho sentito parlare un po’ del mondo esterno e degli attacchi contro i palestinesi che a Gaza lottavano per ottenere cibo e aiuti. Questa storia non riesco a scordarla, ho continuato a pensarci costantemente in cella. Oltre al fatto che colpire persone affamate che cercano di procurarsi del cibo è un orribile crimine di guerra, credo che dobbiamo riconoscere che non si è trattato di una casualità o di un fatto insolito. È un evento che rappresenta la direzione che sta prendendo la coscienza di Israele, una disumanizzazione che si collega alla volontà di vendetta. Voglio ricordarvi che le persone che hanno circondato i camion carichi di cibo non sono affamate per caso. Stanno morendo di fame. Da dietro le sbarre vi chiedo: provate a pensare a cosa li ha spinti a correre verso i camion. Resistete alla tentazione di trasformare gli affamati in mostri. Quando lo facciamo, li uccidiamo senza pensarci perché li abbiamo trasformati tutti in mostri. Le loro vite non hanno più valore. Quando ho sentito ulteriori dettagli, ho capito che la storia raccontata dai media israeliani descriveva un assalto violento da parte di chi cercava cibo, durante il quale i soldati si sarebbero sentiti minacciati e avrebbero sparato per autodifesa. Perché non si può comandare una folla affamata, e quando non si può comandare, si cerca di uccidere il più possibile per recuperare la “deterrenza” e fingere che il sangue versato aiuti a riprendere il controllo».
Questi ragazzi ogni volta ricordano che non sono solo loro a dire «no alla guerra», che la società israeliana non è uniformemente schiacciata sulle posizioni di chi, anche contrario al Governo israeliano, appoggia l’esercito di Tel Aviv. Ricordano che non c’è solo la rete degli obiettori all’arruolamento. C’è anche Combatants for Peace, un gruppo di ex militari israeliani ed ex combattenti palestinesi che lavora insieme alla sensibilizzazione contro la risposta militare. Ricordano che è lunga la storia di resistenza arabo-ebraica, che questa resistenza non è fatta soltanto di volontà di dialogo, ma anche di resistenza fisica congiunta all’occupazione. Si resiste insieme, dicono, israeliani e palestinesi. La lettera di Sofia Orr sui palestinesi uccisi mentre cercavano cibo per i loro figli accenna a questo comune sentire tra due popoli da decenni in guerra.
«Anche volendo non tener conto di questa storia specifica in cui i soldati cercavano di gestire una popolazione di rifugiati affamati – scrive Sofia – Israele mette sempre i palestinesi in condizioni invivibili, cerca di gestirli e fallisce. E quando il fallimento ci esplode in faccia e va fuori controllo, ci convincono che è colpa dei palestinesi. È così che possono uccidere e far sì che questo non abbia alcun peso. Molti cercheranno di dire, e la maggior parte degli israeliani cercherà di credere, che la sparatoria era giustificata, che i soldati si sentivano minacciati e che sparare alla gente di Gaza va bene, visto che sono il nemico». Ma quando parliamo di palestinesi «stiamo parlando di esseri umani», sottolinea la ragazza. «Non permetterò che la disumanizzazione continui senza alcuna resistenza. Come obiettrice di coscienza purtroppo non ho niente di positivo da dire in questo momento, ma ciò rafforza la mia volontà di fare ciò che faccio, di rifiutare di arruolarmi, di pagare il prezzo e di stare in prigione, di continuare ad alzare la voce e di non lasciare che la disumanizzazione passi sotto silenzio. Ve lo dico dal carcere: i palestinesi sono esseri umani e non posso restare a guardare mentre muoiono. Non si può più fingere di gestire la situazione; questa finzione non fa altro che favorire questi caotici spargimenti di sangue. La mia generazione non è nata per uccidere o essere uccisa e per avere un futuro qui dobbiamo passare al processo di pace e fermare la guerra». Un grido potente, coraggioso. Di una giovane di 18 anni chiusa a chiave in una cella di una prigione militare. Che dice al mondo come, in questa guerra in cui non c’è niente di simmetrico, non esiste per nessuno una possibilità di vittoria.