Il presidente cinese Xi Jinping ha pronunciato il 6 marzo a Pechino, davanti a un gruppo di esponenti dell’imprenditoria privata, un discorso che ha tutto l’aspetto di una dottrina. Una «chiamata alle armi» ai compatrioti per fronteggiare uniti la minaccia americana. Xi non usava attaccare direttamente in pubblico il «numero uno». Stavolta ha cambiato registro: «Negli ultimi cinque anni Paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti ci hanno contenuto e aggredito con un approccio totale, che ha portato gravi sfide al nostro sviluppo. (…) Nel futuro prossimo i rischi e le sfide da fronteggiare non potranno che crescere e diventare più gravi. Solo se tutti penseremo e lavoreremo insieme potremo continuare a vincere altre battaglie». Due gli aspetti fondamentali.
Primo, l’accusa agli americani di attaccare il benessere e la sicurezza di tutti i cinesi. Non quindi un attacco al regime, al Partito comunista, ma alla Nazione tutta. Poiché il benessere della popolazione, assicurato dalla crescita economica, è alla base del consenso dei cinesi per il regime attuale, l’appello di Xi suona chiaro: non ce l’hanno solo con me e con i comunisti, ce l’hanno con tutti noi cinesi. Secondo, l’invito agli imprenditori a schierarsi insieme agli altri in appoggio del regime: «Il settore privato è nel lungo periodo una forza importante perché il nostro partito possa governare. (…) Noi consideriamo sempre le imprese private e gli imprenditori privati come gente che sta dalla nostra parte».
Il discorso di Xi va letto sullo sfondo dei modesti risultati raggiunti dall’economia cinese lo scorso anno: appena il 3% di crescita. Un passo falso dovuto anche se non soprattutto alla politica «zero Covid», infatti abbandonata con un colpo di scena clamoroso. Inoltre, il settore privato è un pilastro dell’economia cinese, visto che vale i quattro quinti degli impieghi e i due terzi del prodotto interno lordo. Se i capitalisti non fossero patriottici, nel senso di sostenitori del regime, l’economia ne soffrirebbe e con essa il primato del Partito comunista. L’obiettivo di crescita del PIL per quest’anno si colloca «intorno al 5%», ma potrebbe alzarsi visto il colpo di reni del PIL cinese subito visibile dopo la fine del «zero Covid».
La partita fra Cina e Stati Uniti si svolge infatti non solo sul terreno militare, intorno al controllo degli Stretti dell’Indo-Pacifico e in particolare dello Stretto di Taiwan, ma anche sul fronte commerciale, finanziario e tecnologico. Il tono delle rispettive economie ha inevitabilmente riflessi sulle opinioni pubbliche interne. Soprattutto su quella cinese, che partendo da un benessere enormemente inferiore si è abituata, negli ultimi decenni, a una crescita verticale e continua. Quasi il capitalismo cinese fosse immune dai cicli che ogni economia analoga storicamente attraversa.
Lo scontro fra i due colossi si sta surriscaldando, anche per effetto della guerra in Ucraina. Con il suo «piano di pace», Pechino ha messo i puntini sulla i della sua geopolitica. Ha evidenziato di non voler abbandonare la Russia al suo destino, senza per questo schiacciarsi su Mosca. Pechino e Mosca si presentano oggi sulla scena mondiale come la coppia dell’«anti-Occidente». Portavoce del cosiddetto «Sud globale» – categoria di fatto inesistente che vorrebbe raccogliere in unanime famiglia tutti coloro che occidentali non sono, a cominciare da altri asiatici, africani e latinoamericani – in lotta contro il neocolonialismo a stelle e strisce, sostenuto dalle sue appendici europee e asiatiche. Affresco propagandistico, dunque irrealistico, ma con una certa presa anche al di là della Cina.
Allo stesso tempo, Xi mette l’accento sull’economia perché non vuole militarizzare il confronto con gli Stati Uniti. Il rischio di perdere la guerra, o di uscirne comunque ridimensionati, è troppo forte. Di qui anche un certo grado di ammorbidimento della linea ufficiale su Taiwan. Negli ultimi anni i «lupi guerrieri» della diplomazia sinica avevano spaventato il mondo – e ridotto il soft power cinese, di per sé non formidabile – con affermazioni arroganti e molto militanti. Ora l’accento cade sull’aspetto positivo. Nelle parole del nuovo ministro degli Esteri, Qin Gang, Taiwan è parte della famiglia cinese continentale. La riunificazione va perciò sviluppata «in modo pacifico», almeno in prima battuta. L’avvicinarsi delle elezioni taiwanesi, dove la linea para-indipendentista oggi dominante potrebbe essere smentita dal ritorno al potere del Kuomintang, contribuisce ad addolcire i toni di Pechino.
Molto dipenderà dall’atteggiamento americano. Malgrado la crescita in volume del commercio sino-americano, il clima è sempre negativo con tendenza al peggio. La componente neoconservatrice della amministrazione Biden, di cui il ministro degli Esteri Antony Blinken è acuto esponente, non intende certo abbassare la guardia. La contrapposizione retorica può scivolare da un momento all’altro verso lo scontro militare. In genere le guerre non obbediscono a un cronogramma preconfezionato. Semplicemente, accadono.