Tra slanci e sconfitte

Dieci anni fa iniziava l’avventura di Francesco, il «Papa venuto dalla fine del mondo». Gli aspetti dirompenti del suo pontificato ma non solo
/ 13.03.2023
di Giorgio Bernardelli

Ha appena fissato un nuovo viaggio in Ungheria per aprile. Poi verranno Lisbona, Marsiglia e forse addirittura la Mongolia tra l’estate e il mese di settembre. Nonostante gli 86 anni compiuti e la fatica nel camminare, resta fitta l’agenda di Papa Francesco (nella foto). Nulla fa pensare a un epilogo vicino per il suo pontificato. Ma la ricorrenza dei dieci anni dalla sua elezione – che cade oggi – rende lo stesso un esercizio naturale tracciare un bilancio della stagione aperta nella Chiesa cattolica dal conclave che il 13 marzo 2013 lo scelse come successore di Pietro.

Si è utilizzato molto il termine «rivoluzione» per descrivere l’impatto sul volto paludato del cattolicesimo del «Papa venuto dalla fine del mondo» (come fu lui stesso a descriversi nel primo discorso dalla loggia di San Pietro). Ma, dieci anni dopo, che cosa Francesco ha cambiato davvero intorno a lui? Specialmente nei primi anni, il pontificato di Bergoglio è stato un’esperienza dirompente principalmente su un aspetto: l’umanizzazione della figura del Papa. Francesco ha riavvicinato il suo ministero alla gente, con una predilezione particolare per i poveri e per le periferie. Pur non essendo riuscito ad abolirli del tutto, ha mostrato con chiarezza la sua allergia per tutti i meccanismi che fanno tuttora del Vaticano una corte regale. Ha moltiplicato le interviste, le prefazioni ai libri, i videomessaggi a incontri di ogni tipo. Le sue conferenze stampa sull’aereo di ritorno dai viaggi sono diventate quasi un genere a sé, con un pontefice che non misura le parole (salvo poi qualche volta doversi poi correggere). Francesco è un Papa a ruota libera, difficilmente incasellabile. Per la sua grande popolarità ciascuno cerca di rilanciarne il volto più congeniale. Ma proprio questo lo rende particolarmente inviso a quella parte del mondo cattolico che vorrebbe una Chiesa rassicurante e granitica nelle proprie certezze.

«Meglio una Chiesa incidentata che malata», era stata una delle sue prime frasi programmatiche: su questa strada in questi dieci anni Francesco si è mosso costantemente. Il vertice lo ha raggiunto probabilmente nel Giubileo della misericordia, da lui voluto e celebrato tra il 2015 e il 2016, partendo proprio da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, Paese teatro di una delle guerre più dimenticate al mondo. Della misericordia Bergoglio ha fatto il suo manifesto: «Chi sono io per giudicare?» è un’altra sua frase che ha fatto epoca, pronunciata in risposta a una domanda sul tema dell’omosessualità. Ma la misericordia espone – appunto – agli incidenti. Soprattutto se si ha davanti la sfida di governare una realtà complessa e attraversata da crisi e tensioni com’è la Chiesa cattolica del XXI secolo. Così nel bilancio di questi dieci anni di papa Francesco vanno annoverate anche alcune sconfitte.

La prima – la più dura da digerire – è quella sugli scandali legati agli abusi sessuali. Francesco ha indubbiamente contribuito a fare emergere la verità su tante situazioni. Ha incontrato le vittime mostrando sincera partecipazione al loro dramma. Ma non è andato oltre. E la sensazione nei fedeli davanti a questi scandali è quella di ritrovarsi continuamente al punto di partenza. Tanto più che, negli ultimi mesi, a venir travolto è stata persino una figura vicinissima al pontefice come il gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik. Un’altra sconfitta riguarda le strutture di governo della Chiesa: «sinodalità» è un’altra parola chiave del pontificato di Francesco. Il pontefice l’ha voluta al centro di un percorso che sta coinvolgendo le diocesi di tutto il mondo con il mandato esplicito di ascoltare il più possibile anche quelli che si sono allontanati dal mondo delle parrocchie. Il risultato sarà una grande assemblea conclusiva a Roma che si terrà in due sessioni, una a ottobre 2023 e l’altra l’anno successivo. Ma su come tradurre davvero questo metodo in uno stile di governo della Chiesa, le fatiche restano evidenti. Negli ultimi mesi, in particolare, di fronte a tante resistenze negli ambienti curiali il papa è intervenuto spesso d’autorità, in prima persona. Ma anche di fronte alle richieste di «riforme», come l’abolizione del celibato dei sacerdoti o l’ordinazione delle donne, avanzate dal Sinodo convocato dalla Chiesa tedesca, Francesco ha frenato, denunciando il pericolo di una «parlamentarizzazione» delle dinamiche ecclesiali. Tutto questo, anziché unire come sognava Francesco, sta aumentando le polarizzazioni all’interno del mondo cattolico.

C’è poi la sconfitta espressa dalle lacrime del dicembre scorso in piazza di Spagna per la guerra in Ucraina: gli appelli del pontefice per fermarla non hanno prodotto alcun risultato. Le stesse speranze suscitate qualche anno fa dallo storico incontro a Cuba con il patriarca di Mosca Kirill si sono rivelate infondate. Nel momento della verità il leader della Chiesa ortodossa russa si è rivelato il «chierichetto di Putin» (come ha detto proprio Francesco in un’altra intervista poco diplomatica). Più in generale: il ritorno della guerra e delle contrapposizioni mette in crisi tutto l’approccio geopolitico di Francesco. Il Papa più tiepido con Washington, arrivato persino a far firmare al Vaticano un accordo sulla nomina dei vescovi col governo di Xi Jinping, vede il mondo andare in una direzione opposta. Fatica a prendere posizione su crisi come la repressione delle libertà a Hong Kong o a Teheran. Si trova a fare i conti con la persecuzione aperta della Chiesa cattolica persino in un Paese come il Nicaragua.

Non è un bilancio da «vincente» quello dei dieci anni di pontificato di papa Francesco. Non ha muri fatti cadere nel suo curriculum. Ma certamente non erano nemmeno nel suo programma la sera del 13 marzo 2013. Bergoglio ha riportato la profezia ai vertici della Chiesa cattolica, con la sua forza ma anche le sue debolezze. Oggi è un anziano leader che sempre più spesso ripete ciò che ha già ripetuto tante volte, vedendo che il suo gregge fatica a seguirlo. Questo fanno i profeti. E, di solito, la loro eredità si riesce a misurare davvero solo quando non ci sono più.