Sarà digitale la «new economy»

Newsletter della pandemia/2. parte – Il Coronavirus rappresenta lo spartiacque fra le certezze che sembravano acquisite e le nuove sfide, come quella dell’online, che ridisegnerà il mondo del lavoro falcidiato dalla pandemia
/ 06.04.2020
di Federico Rampini

Dalle finestre di casa mia a New York vedo Central Park, dove è stato allestito un ospedale da campo. Poco distante da qui, ha attraccato al molo sul fiume Hudson la nave-ospedale militare Comfort. La previsione più ottimista degli esperti sanitari del governo ci dice che se avremo centomila o duecentomila morti negli Stati Uniti potremo dirci molto fortunati. Ma dobbiamo guardare oltre. «Non bisogna mai sprecare una crisi»: questa massima oggi è una sfida lanciata al mondo del management.Primo imperativo: imparare le regole del gioco nell’era del telelavoro, che per molti è ancora un mondo semisconosciuto. Dove la produttività dei dipendenti, per esempio, va misurata in modi nuovi. In quanto agli scenari macro nel dopo-crisi, c’è chi già immagina che l’inondazione di liquidità (forse 4500 miliardi di dollari dalla Federal Reserve) e spesa pubblica (5000 miliardi se sommiamo tutte le manovre dei paesi del G20) stia preparando un ritorno dell’inflazione o addirittura dell’iperinflazione. Un fenomeno che i Millennial non hanno mai conosciuto in vita loro. Occhio alle tensioni salariali nei settori che subiscono il boom di attività.

La globalizzazione non sarà più quella di prima, l’effetto coronavirus rafforza tendenze nazionaliste e protezioniste che erano già forti, e costringe tutte le multinazionali a riesaminare catene industriali e logistiche troppo dilatate quindi troppo vulnerabili. A prescindere dal rafforzamento di Donald Trump nei sondaggi – il 60% di approvazione del suo operato è significativo ma potrebbe non sopravvivere alla probabile Caporetto della sanità americana – anche un’America governata dai democratici non tornerà al globalismo dei tempi di Clinton-Obama.Fra le tante certezze dell’epoca pre-crisi, anche l’ambientalismo potrebbe subire un colpo.

Negli Stati Uniti con la fuga dalle grandi città è in atto una rivalutazione dell’American Way of Life più tradizionale, cioè consumista, energivora, insostenibile. Se vivi in un piccolo appartamento in un grattacielo di Manhattan – come me – consumi e inquini meno ma sei intrappolato nella più alta densità di contagio. Se vivi in un sobborgo lontano, hai la villetta col giardino, e ti sposti solo in macchina anziché sui mezzi pubblici, ti proteggi più facilmente dal virus, e naturalmente dai un contributo maggiore alla distruzione di risorse naturali.

Raddoppiati in una sola settimana, i disoccupati americani ora sono 6,6 milioni. Erano 320’000 all’inizio di marzo, in un mese sono quindi moltiplicati per venti. La velocità con cui scivoliamo in depressione è peggiore degli anni Trenta. È ancora fresco l’inchiostro della firma di Trump sulla maxi-manovra di spesa da duemila miliardi (quasi 10% del Pil) e si discute su una manovra-bis. Nancy Pelosi, presidente della Camera a maggioranza democratica, ha pronta la sua versione: 760 miliardi andrebbero a rinnovare le infrastrutture stradali, ferroviarie e di trasporti pubblici metropolitani, la rete idrica, la banda larga Internet. Altri capitoli: sanità e scuola. Trump è favorevole a due trilioni di investimenti in infrastrutture, ma ora il problema è convincere la maggioranza repubblicana al Senato, che si sente trascinata verso un boom di spesa pubblica illimitata.

La Federal Reserve lancia nuove forme di aiuto di portata mondiale. Dopo gli accordi swap della settimana scorsa con cui ha fornito dollari alle altre banche centrali, Bce in testa, ora l’autorità monetaria degli Stati Uniti consente alle altre banche centrali di convertire immediatamente in cash le loro riserve in buoni del Tesoro. Per il ruolo dominante del dollaro nell’economia globale, è essenziale che nessuno ne rimanga sprovvisto, come si vide già nel 2008-2009. All’interno degli Stati Uniti tra le novità dell’arsenale dispiegato dalla Fed c’è uno sportello di credito diretto alle imprese, anche piccole.Questa crisi sta accelerando la «selezione della specie» nel capitalismo americano: sopravviveranno e anzi ne usciranno ancora più forti di prima tutti coloro che avevano abbracciato l’economia digitale, che quindi avevano già spostato online gran parte delle loro attività; saranno eliminati molti attori della Old Economy.

La terza rivoluzione digitale è in arrivo, quindi, e costringe le autorità federali americane ad assegnare nuove frequenze per il wi-fi: ci sarà una rivoluzione nello spettro delle frequenze, per facilitare tele-lavoro, videoconferenze, e la crescita esponenziale di servizi accessibili con le app dello smartphone nella fascia dei 6 gigahertz.Si conferma il rimbalzo dell’attività manifatturiera cinese, ma il governo di Pechino ha due problemi: il crollo della domanda globale che impedisce un ritorno alla normalità delle sue esportazioni, e il rischio di una seconda ondata di contagio dai cinesi che sono rientrati dall’estero. A metà aprile, quando uscirà il dato sul Pil nel primo trimestre, ci si aspetta il primo segno negativo dal 1976: l’anno in cui morì Mao Zedong e il potere passò nelle mani di Deng Xiaoping, l’artefice della transizione al capitalismo.Per la Cina questa crisi si sta trasformando in un’opportunità per accelerare il suo cammino verso una leadership mondiale.

La propaganda ufficiale batte su questo tasto quotidianamente. L’agenzia stampa governativa Xinhua su Twitter pubblica tre immagini una a fianco all’altra. Nella prima c’è Times Square deserta. Nella seconda ci sono scene di festa in un ristorante nella città di Chengdu (Sichuan) per la fine delle restrizioni. Nella terza una squadra medica cinese decolla da un aeroporto della provincia del Fujian per portare aiuti all’Italia. Il messaggio è chiaro: l’America è in ginocchio, la Cina salverà il mondo.Sono già 470’000 le aziende tedesche, molte delle quali di medie dimensioni, che hanno fatto domanda per gli aiuti speciali della manovra pubblica, che consentono di accedere al Kurzarbeit (lavoro ridotto). Considerato come una versione più efficiente della cassa integrazione italiana, il lavoro ridotto versa sussidi alle imprese che lasciano a casa i dipendenti, con lo Stato che si fa carico del pagamento dei salari purché il rapporto di lavoro non sia interrotto. Il governo prevede che il totale dei lavoratori in lavoro ridotto sarà «molto superiore al milione e 400’000 che vennero coinvolti all’apice della crisi del 2009».

La Francia si accoda ai paesi che vogliono imitare il lavoro ridotto tedesco: pagare le imprese perché non licenzino. Ha già stanziato 45 miliardi di euro per sussidi diretti più 300 miliardi per prestiti alle aziende che accettano di tenere a libro paga i dipendenti. 337’000 imprese francesi hanno aderito, e i loro 3,6 milioni di dipendenti stanno ricevendo un’integrazione di salario dallo Stato. Le imprese continuano a pagargliene un quinto.Sui problemi dell’agricoltura europea: per rifornire gli scaffali dei supermercati e negozi alimentari è essenziale che l’agricoltura non si fermi. Con la primavera si avvicina il periodo della semina e anche di alcuni raccolti, a seconda delle regioni, e a seconda dei generi di cereali o di ortofrutta e legumi. Ma le restrizioni alla mobilità hanno fatto sparire buona parte della manodopera immigrata. L’agricoltura tedesca in tempi normali fa affidamento su 300.000 stagionali, in buona parte stranieri.

In questa emergenza si sono candidati a lavorare nei campi alcune migliaia di tedeschi disoccupati, che accetterebbero lo stesso salario minimo di 9,35 euro all’ora degli immigrati. Però le candidature finora sono 16’000, ben al di sotto del fabbisogno. In Francia il governo dice di aver già ricevuto 40’000 richieste da parte di candidati al lavoro nei campi. Ma l’agricoltura francese ha bisogno di 200’000 stagionali, quindi anche lì i conti non tornano. Inoltre gli agricoltori hanno dubbi sulla possibilità di formare in tempi brevi una maodopera che non ha esperienza di lavoro nel settore. Comunque le grandi catene di supermercati francesi ne approfittano per rilanciare il protezionismo: annunciano solennemente che venderanno solo alimenti «made in France», accogliendo un invito del governo.

Prima di concludere sull’Europa faccio una deviazione (senza offesa) dai paesi emergenti. Zambia, Argentina, Ecuador guidano la lista dei paesi a rischio default. Le bancarotte sovrane minacciano gli anelli deboli del sistema, quei paesi che già erano in situazioni difficili ora subiscono ancor più duramente lo shock del coronavirus. Tanto più che gran parte dei loro debiti sono in dollari e la moneta americana si è rafforzata come bene-rifugio in tempi di crisi. In questa fuga di capitali sono a rischio debiti sovrani per 3200 miliardi di dollari nelle economie emergenti.

Questo – purtroppo – si collega alla recente «cattiveria» della Commerzbank contro i titoli di Stato italiani, che secondo la banca tedesca scivoleranno verso un rating da junk-bond. Il problema è che in un panico mondiale di queste dimensione, si allargano inevitabilmente le distanze pre-esistenti in termini di fiducia. L’Italia sarebbe penalizzata comunque dagli investitori; certo il rifiuto di ogni solidarietà da parte dei paesi nordici aggrava questa percezione dei mercati. Interessante il dibattito politico in Germania e Olanda dove molte voci si levano per condannare l’egoismo e auspicare un Piano Marshall di ricostruzione dell’economia europea che cominci da Italia e Spagna. Ma i contribuenti tedeschi e olandesi temono che ci sarà prima da ricostruire la loro economia, perché la tempesta è solo all’inizio.