Mentre Joe Biden e Xi Jinping a Bali celebravano un G20 all’insegna del «disgelo», a Washington una Commissione del Congresso apriva un’indagine sulla concorrenza sleale della Cina, con la possibilità di annullare la «clausola della Nazione più favorita» che regola le relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e la Repubblica popolare dal lontano 1999. Il rischio di una nuova ondata di dazi sul made in China è reale. Al tempo stesso, in Cina è stato osservato che la «giornata dei single», in realtà un’intera settimana di sconti e offerte speciali che segna una frenesia di acquisti online, è stata segnata da una netta preferenza dei consumatori per le marche nazionali: il protezionismo dei cinesi si basa anche su un patriottismo del portafoglio.
Queste notizie servono a mettere nella giusta prospettiva il G20 in Indonesia. Forse bisognerebbe accostarne una terza e cioè la pioggia di missili che il «grande assente» di Bali, Vladimir Putin, ha scagliato contro l’Ucraina proprio nelle ore del summit. Quasi che volesse vendicarsi di essere stato messo in ombra dal bilaterale tra Biden e Xi, il presidente russo si è ripreso l’attenzione mondiale nella maniera più brutale e feroce. La Cina, come sempre, si è ben guardata dal condannarlo. Questo riporta all’attenzione un dettaglio del vertice. Al termine dell’incontro fra Biden e Xi, durato tre ore, la delegazione americana si è affrettata a rendere nota la frase con cui Xi avrebbe condannato qualsiasi ipotesi di uso dell’arma nucleare. Gli osservatori occidentali l’hanno interpretata come una implicita sconfessione delle reiterate minacce di Putin e dei suoi accoliti. Però quella stessa frase non è mai apparsa nei resoconti cinesi dell’incontro Biden-Xi. Non c’è motivo di dubitare che il presidente cinese l’abbia pronunciata, altrimenti da Pechino sarebbe arrivata una smentita ai resoconti di fonte americana. Però la scelta di non menzionare mai quella condanna è stata un gesto di riguardo verso Putin.
La posizione cinese dall’inizio della guerra si evolve sì, ma poco. Con ogni probabilità Xi pensa che la Russia si sia cacciata in un’operazione discutibile, e la sua stima di Putin deve essere scesa dopo i tanti errori strategici. Questo riesame dello scenario ucraino non arriva però a rimettere in discussione l’alleanza tra Cina e Russia, che rimane solida perché basata su due pilastri: la comune analisi sul declino irreversibile dell’Occidente; l’aspirazione condivisa a Pechino e a Mosca di sovvertire l’ordine globale americano-centrico. Il G20 non ha cambiato questa situazione. A cos’è servito allora l’incontro di Bali? È andato in scena all’interno di quel vertice un tentativo di stabilire delle regole del gioco, un modus vivendi, all’interno di un rapporto tra due superpotenze destinate a rimanere antagoniste. Qualcosa che assomigli a quella «coesistenza pacifica» che durante la prima guerra fredda consentì di evitare il peggio: se non altro scongiurò un conflitto diretto tra Usa e Urss che probabilmente avrebbe comportato l’uso di arsenali nucleari.
La Cina pone all’America un problema senza precedenti nella storia. Nelle parole dello stratega capo della Casa Bianca, Jake Sullivan, «è al tempo stesso il nostro concorrente strategico e uno dei nostri maggiori partner economici». La squadra Biden è impegnata a ridefinire la competizione tra superpotenze in questo contesto eccezionale. La Cina, sempre secondo il National Security Adviser Sullivan, è l’unica che oltre a voler sostituire l’ordine globale americano-centrico con un ordine alternativo, nel medio-lungo periodo «avrà i mezzi per farlo». L’antagonismo è oggettivo, irriducibile. Un osservatore esperto, l’ex premier australiano Kevin Rudd, sostiene che Xi Jinping è un marxista autentico, convinto che la storia segnerà il crollo finale delle liberaldemocrazie capitaliste. Gli Stati Uniti devono gestire questa gara esistenziale «in un mondo non manicheo», dicono i consiglieri di Biden: metà del pianeta non si allinea né con l’una né con l’altra delle superpotenze. Pochi vogliono rompere con un’America che possiede il triangolo d’oro delle risorse imperiali: moneta universale, autosufficienza energetica, superiorità tecnologica (incluse le tecnologie militari). Pochi vogliono distanziarsi da una Cina che commercia e investe in Asia, Africa, America Latina.
La stessa industria Usa fatica a liberarsi dalla propria sino-dipendenza; trent’anni di globalizzazione avevano costruito una simbiosi tra le due maggiori economie, quasi gemelle siamesi. Le prove generali di un divorzio economico sono iniziate, ma il processo è lento, irto di ostacoli: ne sa qualcosa Apple che tenta di rilocalizzare fabbriche dalla Cina verso l’India e il Vietnam, ma in questi due Paesi non trova la stessa manodopera operaia addestrata, né la stessa qualità della produzione, né le stesse infrastrutture di trasporto. L’idea di riportare in Occidente attività industriali perdute nell’era aurea della globalizzazione si scontra anche col fatto che non vogliamo più sporcarci le mani: abbiamo declassato la nostra cultura operaia e demonizziamo l’industria perché inquina. Si parla molto di friend-shoring, cioè una rilocalizzazione in Paesi amici e affidabili, come il nuovo orizzonte di una globalizzazione su scala ridotta, con frontiere ridisegnate secondo i nuovi imperativi della sicurezza strategica.
Le risorse cominciano a esserci, almeno in alcuni settori: Stati Uniti, Unione europea e Giappone stanno tutti imitando la politica industriale cinese, con generosi sussidi e aiuti di Stato, per riportare in patria un’attività strategica come la produzione di semiconduttori. Qualcosa si sta muovendo in quella direzione. Però nell’ultimo biennio gli Stati Uniti sono riusciti a rilocalizzare in patria circa trecentomila posti di lavoro all’anno, in media: nel ventennio precedente ne avevano delocalizzati dieci milioni. In altri settori come l’auto elettrica, le batterie, i pannelli solari, perfino i massicci sussidi statali degli Stati Uniti rischiano di non bastare per sottrarre alla Cina il controllo della componentistica a monte. Anche perché quasi tutto ciò che precede e prepara il prodotto finale, auto elettrica o pannello solare, è inquinante e l’Occidente preferisce che siano i cinesi a «sporcarsi».
In queste delicate prove generali di un divorzio, Biden e Xi hanno un comune interesse a prevenire incidenti di tipo ucraino, magari a Taiwan: crisi improvvise e devastanti, provocate da errori di calcolo, incomprensione dell’avversario. Conviene a tutti che siano chiare le «linee rosse» di ciascuno, che l’altro non deve oltrepassare. Serve un «telefono rosso» sul modello di quello che funzionò tra Washington e Mosca nella prima guerra fredda: un sistema di comunicazioni ad altissimo livello per parlarsi sull’orlo della crisi e fermarsi prima del baratro. La ripresa della cooperazione Usa-Cina sull’emergenza climatica è un altro gesto distensivo. Quella cooperazione fu interrotta unilateralmente da Xi dopo la visita di Nancy Pelosi a Taiwan. Ma ogni progresso raggiunto a Bali può essere compromesso da crisi bilaterali improvvise, su questioni sulle quali non c’è intesa. Per esempio: il probabile successore di Nancy Pelosi alla presidenza della Camera, il repubblicano Kevin McCarthy, ha già detto che ha l’intenzione di fare lo stesso viaggio a Taiwan.