La politica «zero Covid» adottata da Xi Jinping ha dei costi sempre più elevati, e non solo per la Cina. Il rallentamento dell’economia cinese si ripercuote anche sul resto del mondo: da un lato aggrava i fenomeni di scarsità e inflazione per certi prodotti, dall’altro aumenta i rischi d’inflazione. È una situazione densa di insegnamenti sui limiti interni del regime comunista cinese, che potrebbe conoscere un test sulla propria stabilità in un anno chiave per il consolidamento del potere personale del suo leader. Questa vicenda contiene anche delle lezioni sulla possibilità di «smontare» la globalizzazione e riorganizzarla fra «paesi amici», un obiettivo evocato dall’Amministrazione Biden.
Tutte le altre nazioni del mondo hanno ormai allentato le restrizioni legate alla pandemia; questo include anche i paesi vicini a Pechino che avevano adottato precauzioni speciali come la quasi-chiusura delle frontiere: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore in vari modi hanno avviato un cauto ritorno alla normalità. Comunque nessuno di quei governi si assegna come obiettivo quello di debellare completamente il Covid. Solo Xi continua a prolungare la rigidità estrema della sua politica e conferma che l’obiettivo è «zero Covid». La conseguenza è che in tempi recenti almeno 45 città sono finite sotto lockdown, con una popolazione pari a 373 milioni. E poiché il totale include metropoli ricche come Shanghai, si tratta del 40% dell’economia cinese che vive sotto restrizioni. Le ragioni di questa rigidità sono molto concrete. Primo: i vaccini cinesi funzionano male, ma per ragioni di protezionismo e prestigio nazionale il governo si è rifiutato di importare dall’America i prodotti più efficaci di Pfizer e Moderna. Secondo: il sistema ospedaliero è meno efficiente di quelli occidentali, soprattutto nelle campagne, e quindi non si può permettere alti numeri di ricoveri. Terzo: le autorità sanitarie cinesi, seguendo direttive dall’alto, hanno dato la priorità alla vaccinazione dei lavoratori in modo da tenere aperte le fabbriche e garantire il flusso di esportazioni. Il risultato è che la percentuale dei vaccinati è più bassa proprio tra gli anziani che sono la fascia di età a rischio.
Questa situazione già oggettivamente difficile è stata aggravata dalla sua strumentalizzazione politica: Xi ha presentato la sua azione contro la pandemia come un trionfo, l’ha esibita come la prova che il sistema politico cinese è superiore alle democrazie occidentali. Rischia di perdere la faccia se smantella la politica «zero covid». Nel frattempo però i segnali d’insofferenza della popolazione crescono. Soprattutto a Shanghai, seconda metropoli più popolosa del paese con 25 milioni di abitanti: la New York cinese, in quanto capitale economica e finanziaria, cosmopolita, sede di tante multinazionali.
A Shanghai abita un vasto ceto medioalto che non è disposto a tollerare imposizioni e sacrifici con la stessa obbedienza dei provinciali. Il lockdown ha rivelato inefficienze spaventose, incluse penurie di alimenti essenziali. Le proteste sui social media sono state così vaste che neppure il potente apparato della censura è riuscito a cancellarne le tracce. Xi Jinping è rimasto insolitamente assente, invisibile e taciturno, sui gravi disagi e disservizi subiti da Shanghai. Sembra averne tenuto conto, in parte, quando il contagio si è esteso a Pechino: la capitale è la sede della nomenclatura politica, «la casta» che domina il regime, e lì il lockdown è stato applicato in modo più circoscritto, quasi soft, per timore di proteste. Ma gran parte del paese continua a subire restrizioni pesantissime e la mobilità è ridotta per tutti, anche per i ricchi che da oltre due anni non fanno vacanze all’estero o non possono ricongiungersi con i figli che frequentano università straniere.
Torna sotto i riflettori una fragilità dei sistemi autoritari: sono più lenti nel riconoscere gli errori. Il fondatore della Repubblica popolare, Mao Zedong, ne fece tanti e fu sempre restio a correggerli. Il più mostruoso fu il Grande balzo in avanti alla fine degli anni Cinquanta: almeno 30 milioni di morti di fame. La parte più nota di quella tragedia fu l’ostinazione con cui Mao volle costruire altiforni siderurgici nelle campagne (si era fissato l’obiettivo di superare la produzione d’acciaio della Gran Bretagna), distogliendo manodopera dall’agricoltura e provocando un crollo nei raccolti. Ma ci fu una seconda mobilitazione altrettanto disastrosa, che viene ricordata da Eyck Freymann (autore di One Belt One Road: Chinese Power Meets the World). Fu la campagna per lo sterminio dei passeri. Mao si era convinto che gli uccellini fossero i veri responsabili della crisi dei raccolti. Lanciò le masse in una caccia ai passeri, che effettivamente furono quasi eliminati. La conseguenza fu una micidiale invasione di locuste, non più mangiate dagli uccelli, che aggravò la catastrofe agricola. Mao presiedeva una Cina molto più povera, però aveva una cosa in comune con Xi, a furia di accentrare il potere e di eliminare i rivali interni al partito si era circondato di yesmen, di conseguenza i segnali sugli errori arrivavano sempre troppo tardi e chi li trasmetteva rischiava di fare una brutta fine. Il lockdown di Shanghai ha imposto un rallentamento in uno snodo nevralgico sia per la produzione industriale che per la logistica e il trasporto: il porto navale di quella città è uno dei più grandi del pianeta. Le esportazioni di smartphone verso il resto del mondo sono calate del 18%. Milioni di neolaureati fanno più fatica che in passato a trovare un posto di lavoro.
La frenata della crescita non impedisce un risultato roboante, +4,8% del Pil nel primo trimestre. Ma è diffuso il sospetto che si tratti di un dato truccato, visto che Xi ha promesso una crescita «superiore a quella americana» (nell’ultimo trimestre 2021 il Pil Usa era aumentato più di quello cinese) e pari a +5,5% su base annua. I dirigenti a tutti i livelli, dalle provincie fino all’amministrazione centrale di Pechino, hanno interesse a non far perdere la faccia a Xi che a ottobre si farà «incoronare» con un terzo mandato presidente-imperatore a vita. I segnali dall’economia reale dicono che i guai cinesi sono seri. Altrimenti non si spiegherebbe perché il governo stia annunciando una maxi-manovra di aiuti pubblici: rilancia gli investimenti in infrastrutture; esonera le imprese dal pagamento di certi oneri sociali purché non licenzino; taglia le bollette energetiche; offre sussidi ai neolaureati che si mettono in proprio; e altro ancora. È utile ricordare che fino all’anno scorso Xi stava cercando di fare il contrario: aveva ridotto il sostegno pubblico all’economia con l’intenzione di sgonfiare la bolla speculativa del settore immobiliare. Contrordine compagni. La ragione della sterzata è che la crescita sta frenando probabilmente assai più di quanto dicono le statistiche ufficiali.
Le difficoltà della Cina possono essere aggravate dalla guerra in Ucraina su due fronti: per l’aumento del costo delle materie prime e perché l’appoggio fornito da Xi a Vladimir Putin può esporre alcune aziende cinesi alle sanzioni occidentali. Tuttavia l’America non riesce ad emanciparsi dalla sua dipendenza dal «made in China». Lo conferma l’ultimo dato sul deficit commerciale Usa, salito del 22,3% a marzo. E per far fronte all’inflazione, dentro l’Amministrazione Biden c’è una corrente che vorrebbe perfino abolire i dazi sul «made in China». La nuova globalizzazione «riservata ad amici e alleati» per ora rimane un progetto, la realtà è ben diversa.