Sempre più potere al «sultano»

Nel 2011 la Turchia di Erdogan, in quel momento premier, è stata la prima Nazione a firmare la Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (da cui si è ritirata nel marzo 2021). Il panorama politico turco era diverso da quello attuale, spiega l’Osservatorio Turchia del Centro studi di politica internazionale (www.cespi.it). L’AKP non aveva ancora assunto una posizione predominante e in Parlamento resistevano elementi di forte impronta laicista e kemalista (da Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna). Allora il Paese stava implementando una serie di riforme d’impronta liberale, anche nell’intento di avvicinarsi all’Europa. Nel 2005 si erano avviate le trattative per l’adesione della Turchia all’UE, ma si sono arenate in fretta. Nell’ultima decina d’anni l’AKP si è trasformato.

Nato nel 2001 come «partito pigliatutto», riuniva componenti più o meno tradizionaliste e si poneva come movimento di centro-destra al servizio del popolo, con un programma di democrazia conservatrice. Dal 2011 ha accentuato la sua tensione nazionalistica e la logica autoreferenziale di Erdogan che già all’epoca mirava a un programma presidenziale. Col passare del tempo quest’ultimo e il suo partito hanno assunto posizioni sempre più dominanti nel panorama politico turco. Si sono poi susseguite diverse crisi: dalle grandi proteste del 2013 contro l’autoritarismo, duramente represse dal Governo, al tentato golpe del 2016. Tutti avvenimenti che hanno reso sempre più evidente il piano accentratore di Erdogan che nel 2014 era diventato presidente. Nel 2017, con un referendum, la Turchia accettava l'allargamento dei poteri presidenziali. Ora tutto passa da Erdogan mentre il legame che prima aveva con la base della società turca si è sfaldato. In occasione delle elezioni del 2018, per ottenere la maggioranza dei voti in Parlamento, il presidente turco ha dovuto stringere alleanze con le componenti più conservatrici della società, portatrici di visioni tradizionali della donna e della famiglia.


La Turchia sceglie il suo futuro

Erdogan ha buone chances di essere riconfermato presidente al ballottaggio del 28 maggioma cosa succederebbe se vincesse Kilicdaroglu? Intervista all’esperta Valeria Talbot
/ 22.05.2023
di Romina Borla

La Tuchia è a un bivio. Il 28 maggio, infatti, si terrà il ballottaggio tra il presidente uscente, Recep Tayyip Erdogan (AKP), e il leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP), Kemal Kilicdaroglu, scelto come unico candidato da sei partiti dell’opposizione riuniti in quello che è stato definito il «Tavolo dei sei». Al primo turno il «sultano» ha conquistato poco più del 49% dei voti contro il 45% circa del suo principale avversario (per imporsi bisognava superare il 50%). «Erdogan non ha vinto subito, il 14 maggio: è la prima volta che succede da quando la Turchia è una Repubblica presidenziale (2018), ma ha comunque sfiorato il 50% delle preferenze», commenta Valeria Talbot, responsabile del Centro Medio Oriente e Nord Africa dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) con sede a Milano. «Il presidente gode ancora di molta popolarità nel Paese, soprattutto nelle regioni dell'Anatolia centrale. Meno nelle città e sulla costa, come non è amato nelle regioni curde che hanno sostenuto Kilicdaroglu. Dalla sua parte ci sono quelle larghe fette della popolazione conservatrice e religiosa, cui Erdogan ha dato voce negli anni, consentendo loro di occupare spazi pubblici, spazi che erano loro preclusi in una Turchia fondamentalmente laica e kemalista».

Dal voto del 14 maggio emerge comunque l'immagine di un Paese diviso in due, continua la nostra interlocutrice. Da una parte chi è a favore di Erdogan, dall'altra i suoi nemici. Ricordiamo che il principale collante del «Tavolo dei sei» è proprio la volontà di sconfiggere il «sultano». Ma che futuro si prospetta all'orizzonte? Se guardiamo ai dati emersi delle urne – afferma Talbot – lo scenario più probabile è la rielezione del presidente uscente al ballottaggio. «Anzitutto perché è di quasi 5 punti percentuali in vantaggio rispetto al suo avversario Kilicdaroglu. In secondo luogo poiché i voti conquistati da Sinan Ogan – il terzo classificato al primo turno elettorale, con il 5 per cento delle preferenze – potrebbero confluire su Erdogan». Ogan, infatti, è un politico di destra e molto nazionalista. Ha posizioni rigide sull'immigrazione, è contro le minoranze curde e favorevole al mantenimento dei valori tradizionali e conservatori turchi. Per affinità ideologiche, quindi, sarebbe più vicino a Erdogan, piuttosto che a Kilicdaroglu, un leader di centrosinistra. «In terzo luogo – osserva la nostra interlocutrice – l'alleanza del partito di Erdogan (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo o AKP) e il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), insieme ad altre due formazioni religiose di destra, ha già raggiunto la maggioranza in Parlamento. Detiene 321 seggi sui 600 che compongono la Grande assemblea nazionale, il Parlamento». Tutti segnali che vanno nella stessa direzione...

Intanto la Turchia sta attraversando un periodo di grosse difficoltà economiche. Pensiamo all’inflazione galoppante e al deprezzamento della valuta nazionale. I dati ufficiali dell’Istituto di statistica turco riportano un’inflazione al 43,6% ad aprile, ma che ha superato l’85% lo scorso ottobre. Di fatto l’aumento reale dei prezzi sarebbe molto più alto. Ma questo non ha pesato sul voto? «Il difficile andamento dell’economia ha sicuramente eroso il consenso di Erdogan – dice l'intervistata – ma non ha scalfito quello che è lo zoccolo duro che lo sostiene. Anche nelle provincie devastate dal terremoto (inizio febbraio 2023) il presidente e l'AKP hanno ottenuto buoni risultati. Erdogan continua ad essere visto come il punto di riferimento, l'uomo forte che ha cambiato il volto del Paese sul piano interno. Ma anche il leader assertivo che gioca un ruolo importante su diversi tavoli in politica internazionale. L'unico che riesce a dialogare allo stesso tempo con Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky e ha svolto un ruolo di mediazione nella crisi tra Mosca e Kiev». Grazie ad Ankara, ad esempio, nel luglio 2022 si è arrivati alla firma di un accordo, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per sbloccare l’export di grano ucraino attraverso il Mar Nero. Figura carismatica, dicevamo, che si presenta agli elettori come pragmatico e fautore di quella grandeur turca che si esprime anche nell'industria bellica, vedi fabbricazione nei droni Bayraktar (protagonisti in Ucraina), delle navi da guerra, ecc.

Ma se lo sfidante Kilicdaroglu vincesse? La Turchia potrebbe sperare in un futuro diverso, più democratico? «L'eterogeneità del fronte rappresenta una fragilità per Kiligaroglu – afferma Talbot – che si ritroverebbe costantemente a mediare tra interessi e agende politiche diverse. Il punto dolente è che lui sarebbe presidente con un’Assemblea nazionale in cui il partito di Erdogan e il suo alleato nazionalista hanno la maggioranza. Una situazione anomala e difficile da gestire, sebbene nel sistema turco il presidente gode di “super-poteri” e potrebbe anche governare scavalcando il Parlamento. Ma si creerebbe comunque una situazione complicata. Detto ciò, Kiligaroglu e il “Tavolo dei sei” in campagna elettorale hanno messo nero su bianco la volontà di tornare al sistema parlamentare. È tra le loro priorità. Insieme a quella di riportare il Paese in un processo verso la democrazia. Perché, attenzione, non è che prima di Erdogan ci fosse la democrazia: la Turchia era “sotto tutela” dei militari che avevano un ruolo fondamentale nella vita politica del Paese. Questi sono intervenuti tutte le volte che hanno ritenuto che i principi del kemalismo – soprattutto quello della laicità dello Stato – venissero messi in discussione».

Per tornare a Kiligaroglu, potrebbe favorire – secondo l'esperta – la ripresa di un processo democratico che pure Erdogan nei primi anni del suo Governo aveva portato avanti con lo scopo di avviare i negoziati per l'adesione all'Unione Europea (i quali si erano subito arenati). Questo significa anche: ripristino dei diritti e delle libertà fondamentali che negli ultimi anni sono stati notevolmente ridotti, soprattutto dopo il tentativo di golpe del 2016 ai danni di Erdogan. «Si tratterebbe comunque di un processo lungo e complesso, anche perché per modificare la Costituzione ci vuole la maggioranza in Parlamento che Kiligaroglu non avrebbe».