Ciò che è davvero sorprendente di Manpreet Kaur (nella foto) è che non sa quanto sia speciale e che non abbia un’idea chiara del perché la sua storia meriti di essere raccontata. Lei si è sempre considerata una ragazza come tante altre. Ma, letta la sua storia, una bambina come tante, una che sta crescendo in Italia, in Svizzera o in un qualunque Paese europeo, una qualunque bimba che arriva da un villaggio del Punjab – uno Stato indiano al confine con il Pakistan – (ma non solo) e pensa di non avere scelta, saprà che anche questo è possibile e che non dovrà vivere per forza come sua madre o sua nonna prima di lei. Saprà di avere la possibilità di vivere la sua vita in un Paese diverso, di vivere e lavorare, pur rimanendo radicata nelle tradizioni del suo Paese d’origine. La possibilità di essere una storia felice e non, come succede ad altre, di diventare un atroce racconto di cronaca nera. La possibilità di essere, nel caso di Manpreet, la prima e unica ragazza di origine indiana a possedere e guidare un taxi a Roma. A meno di 30 anni, essendo sposata e con bambino, Brian, da tirare su. Questa storia inizia per caso, chiamando un taxi in una soleggiata mattinata romana: 5 minuti per arrivare, dice l’app, nome dell’autista: Manpreet. E, dice la stessa Manpreet ridendo, la passeggera è forse l’unica persona in circolazione in grado di capire che lei è indiana, sikh e punjabi. La gente, dice Manpreet, di solito non pensa che lei sia indiana. Lei parla un italiano perfetto, con uno spiccato accento romanesco. Ed è amichevole, loquace, solare e sorridente. Un esempio perfetto di come due culture possano fondersi magnificamente.
«Avevo 6 anni quando sono arrivata in Italia, e ricordo poco della mia vita in India. Mio padre vive in Italia dagli anni Ottanta, ha lavorato prima nelle stalle e poi ha comprato un autolavaggio». Manpreet cresce dunque a Roma, in una famiglia dalla mentalità piuttosto aperta. Va a scuola, fino al liceo: «Sono in Italia da quasi 25 anni e non ho un solo amico indiano, a parte i miei parenti: non c’erano altri ragazzi indiani a scuola. Insegnanti e compagni di classe mi hanno dato un nuovo nome, Manuela, perché nessuno riusciva a pronunciare il mio vero nome. La mia famiglia mi ha dato libertà, ma non ne ho mai approfittato. Sotto questo aspetto sono ancora profondamente indiana: ho un grande rispetto per i miei genitori e per la loro cultura, non ho mai nemmeno pensato di fare cose che sapevo o credevo li avrebbero feriti o fatti arrabbiare».
Aveva 23 anni quando, dopo aver terminato la scuola e aver lavorato per un paio d’anni come parrucchiera, i suoi hanno cominciato a parlare di matrimonio. «Questa è l’unica cosa su cui i miei genitori sono sempre stati irremovibili: non esiste che tu esca con o sposi un ragazzo italiano. Dovevo sposare un ragazzo sikh appartenente alla nostra comunità. Però io sono cresciuta in Italia. Così, quando mi hanno detto che mi avrebbero presentato un “ragazzo adatto” in India, ho risposto: non se ne parla! Sono andata in India pronta a rifiutare la proposta. Ma poi è successa una cosa incredibile: il ragazzo arriva, io lo guardo e nel momento stesso in cui l’ho visto dico a mia zia “sì, lo sposo”. La mia famiglia era più sconcertata di me. Mi hanno chiesto: “Sei sicura? Non vuoi vedere un altro ragazzo? Nessuno ti obbliga, puoi scegliere”. Ma io avevo già fatto la mia scelta. Mi sono innamorata a prima vista, e così anche lui. Ci siamo sposati in India due anni dopo, con un matrimonio tradizionale punjabi. Lui è venuto in Italia e ora lavora con i miei genitori nell’autolavaggio».
E qui arriva un’altra cosa di cui Manpreet non si è mai resa conto, qualcosa di non facile da digerire anche per uomini occidentali e «illuminati»: lei guadagna più del marito, ha un lavoro migliore e un’istruzione superiore a quella di lui. «A lui va benissimo così. Mio marito mi ha sempre sostenuto, così come mio fratello. In realtà, mentre ero incinta di Brian, mio fratello, che guida anche lui un taxi, e mio padre mi hanno spinto a dare gli esami per prendere la licenza da tassista. In realtà ero io a pensare che no, forse non è un lavoro per ragazze: i miei, però, hanno insistito. E, dopo aver superato gli esami, viene fuori che c’è una licenza disponibile. Così, visto che a quanto pare era destino, ho comprato un’auto e cominciato a fare questo lavoro. All’inizio è stato difficile, ma adesso non lo cambierei. Mi dà libertà e anche la flessibilità di tornare quando ne ho bisogno per stare con mio figlio».
Quando è nato Brian, Manpreet e il marito si sono trasferiti in un appartamento tutto loro, rompendo anche in questo caso con la tradizione. «È stato allora che ho imparato a cucinare – dice la ragazza – perché prima non sapevo fare nulla». Il rapporto di Manpreet con l’India e l’Italia è complesso: «Mi sento troppo indiana per essere italiana e, quando sono in India, troppo italiana per considerarmi davvero indiana. Credo che succeda a tutti i figli di immigrati nati e cresciuti all’estero: siamo bloccati in una sorta di terra di nessuno, non apparteniamo veramente a una cultura o all’altra». Una terra di nessuno, però, in cui la sua famiglia indiana è orgogliosa di lei, i suoi amici italiani sono fieri di lei e le voci di chi pensa che il posto di una ragazza sia a casa propria sono solo un rumore di fondo. Una terra dove donne come Manpreet, sicure di sé, forti e coraggiose, possono prendere il meglio di due mondi e crearne uno nuovo. E dare vita a storie felici, che meritano di essere raccontate.