I perché delle provocazioni di Pyongyang

La tensione tra le due Coree resta elevata ma per le strade di Seul nessuno crede che la guerra sia davvero possibile, i problemi sono altri...
/ 21.11.2022
di Giulia Pompili

Nella Zona demilitarizzata, la striscia di terra che divide la Corea del Nord dalla Corea del Sud lungo il trentottesimo parallelo, è ancora vietato visitare il villaggio di Panmunjeom e l’Area di sicurezza congiunta, quei prefabbricati blu (nella foto) dove nel 1953 fu firmato l’armistizio della guerra di Corea e più di recente, nel 2018 e nel 2019, il leader nordcoreano Kim Jong-un ha incontrato il presidente del sud, Moon Jae-in, e quello americano Donald Trump. Questioni di sicurezza, dicono: quando la situazione si fa più tesa tra le due Coree, quello a pochi passi dal territorio nordcoreano è il primo posto che viene chiuso al pubblico. Panmunjeom negli anni è diventato un luogo turistico, ma resta soprattutto un simbolo di una questione irrisolta e importantissima per la politica asiatica: la minaccia del regime di Pyongyang, la capitale della Corea del Nord, e una guerra fredda mai davvero finita, con una penisola divisa esattamente a metà tra una dittatura povera, aggressiva e una democrazia sviluppata, ipertecnologica.

Negli ultimi mesi il regime ha aumentato esponenzialmente la minaccia missilistica e nucleare contro la Corea del Sud (e contro il suo alleato principale, l’America). Si parla di oltre trenta missili balistici, con diverse gittate, lanciati in una finestra temporale brevissima. Ma non solo, raramente era avvenuto che la Corea del Nord procedesse anche con esercitazioni d’artiglieria sul confine, provocazioni militari esplicitamente dirette al sud. Generalmente i test missilistici nordcoreani avvengono nel totale disinteresse della popolazione sudcoreana. Ma il 2 novembre scorso i cittadini sudcoreani che vivono sulle isole occidentali si sono svegliati con un messaggino sullo smartphone, e non uno qualunque. Era un allarme che chiedeva ai residenti di rifugiarsi nei bunker. Un missile balistico nordcoreano era arrivato a soltanto 57 chilometri dalla città sudcoreana di Sokcho, una destinazione turistica molto popolare soprattutto in queste settimane che precedono il freddo inverno. Secondo il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, il missile ha violato le acque territoriali attorno all’isola di Ulleungdo, nel Mar del Giappone, che dista circa 120 chilometri dalla costa. Per qualche ora si è temuto il peggio.

È infatti vivo nei ricordi dei sudcoreani, specialmente tra i ragazzi che svolgono il servizio di leva, ancora obbligatorio per gli uomini, quel primo pomeriggio del 23 novembre del 2010. Alle 14.30, a seguito di alcune esercitazioni militari sudcoreane nel Mar Giallo, l’artiglieria nordcoreana ha aperto il fuoco contro l’isola sudcoreana di Yeonpyeong. Nell’attacco hanno perso la vita due civili dell’isola (anche due soldati nordcoreani) ma l’episodio viene ricordato soprattutto per le fasi successive, quelle in cui sembrava che la rappresaglia del Governo di Seul potesse aprire un nuovo fronte di guerra. Così non è stato e per molto tempo, soprattutto nelle frange più oltranziste in Corea del Sud e quelle legate alle Forze armate, l’inazione del Governo del sud per cercare la de-escalation fu in realtà considerata un’umiliazione, e il motivo per cui ancora oggi Pyongyang si permette di essere così aggressiva.

Secondo gli analisti sudcoreani, in realtà, sono tre i motivi per cui la Corea del Nord negli ultimi mesi sta aumentando le sue provocazioni, ed è pronta al suo settimo test nucleare, che secondo le immagini satellitari sarebbe imminente. Da un lato c’è il fatto che alla presidenza di Seul, a maggio, è arrivato Yoon Suk-yeol, un conservatore populista che ha completamente cambiato la sua politica nei confronti del nord rispetto alla precedente amministrazione democratica guidata da Moon Jae-in. Moon cercava a tutti i costi il dialogo; Yoon è pronto a rispondere anche con la forza contro il nord. Poi c’è la guerra della Russia contro l’Ucraina, che ha avvicinato ancora di più il regime alla Russia e che, in un piano di destabilizzazione globale, si sente sempre più protetto, soprattutto nelle sedi internazionali come l’Onu. E poi naturalmente ci sono le motivazioni che riguardano la strategia interna nordcoreana: dopo la pandemia, l’economia del nord è praticamente al collasso e le provocazioni sono state spesso usate, in passato, per far tornare al tavolo dei negoziati gli altri Paesi, pronti con aiuti alimentari ed economici.

La Corea del Nord è stata tra i temi discussi tra il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping a Bali, in Indonesia, nel contesto del G20 (leggi articolo a pagina 27). L’America sa che il regime si tiene in piedi soprattutto grazie al supporto – politico ed economico – di Pechino, e la Cina serve per un’azione coordinata contro il leader nordcoreano Kim Jong-un. Xi Jinping ha parlato di Corea del Nord anche durante il faccia a faccia con Yoon Suk-yeol e ha dichiarato di essere pronto a favorire la denuclearizzazione del regime di Kim Jong-un solo nel momento in cui anche il leader aderirà alla proposta (non succederà mai, le armi nucleari sono l’unica difesa per l’esistenza stessa del regime). Con Pyongyang sembra di tornare sempre allo stesso punto. Il problema politico principale, per Seul e per chi, a Washington, vorrebbe mantenere alta l’attenzione sulla questione nordcoreana, resta il fatto che la minaccia in realtà resta lontana dalla vita quotidiana di Seul. Per le strade della capitale nessuno crede infatti che una guerra sia davvero possibile.

I problemi reali sono altri: la strage di Itaewon, per esempio, quando, nell’ottobre scorso, durante i festeggiamenti di Halloween, oltre 150 ragazzi – tra sudcoreani e stranieri – sono morti schiacciati nella calca. La tragedia ha avuto anche un effetto politico: i gruppi progressisti e democratici che oggi sono all’opposizione chiedono le dimissioni del presidente conservatore Yoon per non aver assicurato il corretto svolgimento di una festa pubblica. Di recente, mentre da un lato della piazza principale di Seul, Piazza Gwanghwamun, si svolgeva l’ennesima fiaccolata per ricordare i morti di Itaewon, dall’altra parte è stata autorizzata una contro-manifestazione in favore del conservatore Yoon. E dagli altoparlanti di un camioncino, a un certo punto, è partita una canzone tradizionale che dice «guerra alla Corea del Nord». La società sudcoreana è divisa su moltissimi temi e il rischio è che la contrapposizione tra democratici e conservatori influisca pure su una questione, quella nordcoreana, che da più di settant’anni nessuno riesce a risolvere.