Morto lo scrittore Abraham Yehoshua, da sempre in prima linea nella lotta contro l’occupazione israeliana, il mondo si interroga su chi porterà avanti la battaglia contro i soprusi nel confronti dei palestinesi. Ma tra gli ebrei israeliani i giovani attivisti non mancano e, sebbene non godano della fama internazionale dello scrittore, sono politicamente più radicali, determinati e molto preparati culturalmente e dal punto di vista accademico. Lo scorso 29 maggio, in occasione della Giornata di Gerusalemme, migliaia di nazionalisti israeliani hanno sfilato attraverso le aree musulmane della città vecchia di Gerusalemme, nella cosiddetta Marcia delle bandiere, una delle peggiori manifestazioni del «fascismo israeliano» che celebra la riunificazione nel 1967 della città sotto sovranità ebraica. La provocatoria manifestazione seguiva, a distanza di poche settimane, la commemorazione delle vittime della Shoah, quella dei caduti di guerra e delle vittime del terrorismo, la celebrazione del giorno dell’Indipendenza. Una sequenza non casuale e molto suggestiva che ogni primavera fa abilmente leva sulla tragedia della Shoah attribuendovi l’ingrato compito di legittimare l’agenda politica e militare israeliana da oltre settant’anni.
Già da tempo, tuttavia, eminenti voci di accademici si ergono per imporre l’attenzione sul tassello mancante della sequenza: la Nakba, ovvero la catastrofe palestinese che ha avuto inizio nel 1948 e si protrae ancora oggi a causa dell’ingrata occupazione israeliana. Come scrive tra gli altri lo storico Yair Auron nel suo «La Shoah, la rinascita e la Nakbah», nel corso di tre generazioni la società ebraica ha coltivato miti fondanti che collegano Shoah e rinascita, plasmando di conseguenza la coscienza collettiva.
Se lo Stato cerca di impedire che tali buchi neri della storia facciano capolino nel discorso pubblico, preziose Ong come B’Tselem, Breaking the silence e Zochrot da anni si prodigano instancabilmente al fine di integrare nella narrativa israeliana il riconoscimento della Nakba come tragedia direttamente collegata agli eventi del ’48. Non c’è purtroppo da stupirsi se le medesime organizzazioni vengono osteggiate con violenza e i loro membri molestati. Questo è anche il caso dell’attivista Yuli Novak, dal 2012 al 2017 direttrice esecutiva di Breaking the silence, l’organizzazione di soldati che hanno scelto di parlare di ciò che hanno visto e fatto mentre prestavano servizio nell’esercito israeliano. Nel corso del suo mandato l’associazione è divenuta l’obiettivo di una vasta campagna di delegittimazione che ha visto coinvolti i media israeliani, alti ministri del governo e persino i temuti servizi segreti dello Shabak, solitamente riservati a presunti terroristi.
In un toccante memoir uscito in ebraico all’inizio di quest’anno con il titolo «Who do you think you are», Novak racconta l’esperienza delle minacce ricevute, della privacy violata, dell’angoscia e del prezzo psicofisico pagato da lei e dalla sua famiglia. Accolta dalla critica come «un pugno nello stomaco», più che sull’agenda politica la testimonianza di Novak fa leva sulla drammatica esperienza umana da lei elaborata nel corso di un lungo viaggio all’estero: «È la storia di un paese che mi ha trasformata nel suo nemico, e devo trovare il modo di mettere fine a questa battaglia. In questa storia io esco perdente, tra le altre cose, perché mi hanno condotta a entrare in conflitto con me stessa. E questa, a quanto pare, è un’ottima ricetta per la disgregazione dell’animo e per lo smembramento della lotta politica». Tornata in Israele «per cercare una via di accesso a quella che una volta era una casa», lo scorso 3 maggio Novak ha tenuto il discorso principale alla cerimonia congiunta, israelo-palestinese, per il giorno del caduti, patrocinata dal forum delle famiglie di ambo le parti che hanno perso un parente nel conflitto. La cerimonia, che si è svolta a Tel Aviv in un luogo tenuto segreto, è stato trasmessa in streaming e visualizzata in tutto il mondo. Ecco cos’ha detto Novak.
«Essere israeliana significa crescere con la sirena e con i brividi che l’accompagnano. Da bambina ti sforzi più che altro di soffocare davanti a essa una risata di imbarazzo. Ma abbastanza presto impari e, quando suona, tutto accade automaticamente: il corpo si tende, il cuore si stringe, gli occhi si chiudono per un minuto. Allora i volti, i nomi, le foto ti scorrono in testa, e con gli anni sai già esattamente come ricordarteli tutti. Ma essere israeliana non significa solo ricordare questa morte, ma anche onorarla. (…) La storia della nostra israelianità è una storia di sopravvivenza e sacrificio. E separazione. È una storia di “noi e loro”, dove le linee di ripartizione sono sempre chiare: noi siamo sempre la villa nella giungla e loro sono sempre i barbari che arrivano. E loro sono così tanti, mentre noi così pochi. La storia israeliana è la storia di una minoranza perseguitata, sempre sola nello spazio. (…) La storia israeliana è una storia di vita nella paura. Essere israeliana significa aver paura: di guerre, di bombe, di attentati. Aver paura degli arabi che commettono attentati. Aver paura degli arabi. Aver paura dell’arabo, aver paura delle arabicità. E la tragicità della storia non fa che diventare più profonda e complicata. Perché la nostra risposta alla solitudine e alla paura è una vita di spada: armare sempre più giovani, costruire sempre più mura, acquistare altri aeroplani. Nella storia d’Israele la potenza è nel mondo militare e la forza è semplicemente forza. Oggi, la giornata dei caduti, è quella che meglio incarna questa israelianità: quella militare, quella che combatte (...). Questo giorno è così noi, che ogni tentativo di riformularlo, di collocare il ricordo in una narrativa diversa – persino un tentativo semplice, ingenuo, di osservare il lutto insieme – minaccia l’ordine politico e identitario israeliano. E noi, qui, uomini e donne che cerchiamo di proporre un’esperienza di memoria diversa, veniamo etichettati come “traditori”. E a ragione. La volontà di tradire la storia israeliana è quella che consente a questa serata di avere luogo, già da 17 anni. Proprio in questo giorno, nel giorno più difficile per commetterlo, il tradimento – nell’accezione profonda, intrinseca, trasformativa e positiva del termine – ci consente di sederci qui insieme e sentire, accanto al dolore, anche un senso di orgoglio. Perché non si tratta di tradire noi stessi, ma solo la narrativa nella quale siamo cresciuti. (...) E anche questo è davvero solo l’inizio. Per sfuggire veramente dalla trappola dell’israelianità dovremo decidere, con coraggio, di sostenere questo tradimento anche oltre a questo giorno. (...)
Proprio in questo giorno, di fronte alla morte incomprensibile, abbiamo l’opportunità di ammettere che, benché siamo tutti vittime della stessa realtà, noi, gli israeliani, siamo al potere e ci preoccupiamo di mantenerla viva. E, benché in questo gioco sanguinoso, tutti perdiamo alla grande, c’è anche chi perde molto più degli altri. Proprio questo è il giorno in cui ammettere che l’apartheid e la separazione sono impressi nel profondo della nostra coscienza, definiscono chi siamo e limitano quello che potemmo essere. Ammettere che nonostante desidereremmo piangere la morte israeliana e palestinese come se fossero equivalenti, semplicemente non siamo in grado di farlo. E che si può supporre che anche nella prossima guerra, esattamente come in quella precedente, quando il numero di bambini palestinesi che avremo ucciso sarà salito, come per un crudele maleficio, il dolore di nuovo svanirà. E quando qualcuno chiederà di ricordare che, nonostante tutto, si tratta di esseri umani, anch’egli verrà chiamato traditore. Ed ecco un altro tradimento di cui andare orgogliosi: il tradimento dell’indifferenza che l’israelianità ci impone. Solo quando saremo pronte a tradire, davvero tradire, questa storia potremmo anche cominciare a sognare nuovamente la pace».