È una socialdemocratica scaltra e navigata, pronta a difendere a spada tratta un welfare generoso e la lotta al cambiamento climatico, ma che ha trovato il suo «marchio di fabbrica» nell’approccio antidogmatico ad alcuni temi, tra cui l’immigrazione, su cui ha promosso e continua a promuovere una delle linee più rigoriste d’Europa. Stiamo parlando di Mette Frederiksen, potentissima quarantacinquenne danese di recente eletta premier o ministra di Stato per la seconda volta.
Nata in una famiglia semplice nel nord-ovest del Paese – padre tipografo e madre maestra d’asilo – Frederiksen è fermamente convinta che «il prezzo della globalizzazione non regolata, dell’immigrazione di massa e della libera circolazione dei lavoratori viene scontato dalle classi sociali più basse», come scrisse in un’autobiografia pubblicata ai tempi della prima vittoria nel 2019. E quindi nella «sua» Danimarca proposte come quella di creare dei centri di smistamento in Ruanda per i richiedenti l’asilo vengono dibattute in un’atmosfera di concordia tra destra e sinistra, tra lo sgomento delle associazioni di difesa dei diritti umani e di tutti quei partiti minori che – con una soglia di sbarramento appena al 2% – movimentano la vita parlamentare e rendono i partiti di Governo ormai più propensi a guardare all’opposizione per formare coalizioni per non ritrovarsi ostaggi di alleanze imprevedibili e frammentarie.
Ma per la premier, che ha vinto le elezioni anticipate del 1. novembre con un margine risicatissimo di appena un seggio, anche il controllo dell’immigrazione e la questione della sicurezza sono temi di sinistra, anzi, sono fondamentali per rilanciare le politiche di sinistra in tutta Europa e puntare a una società più coesa. Per lei la formula ha sicuramente funzionato; è riuscita a prendersi alcuni dei voti del Partito del popolo danese, ridotto al lumicino del 2%, anche grazie a discorsi in cui insiste sempre sul punto dell’integrazione e della necessità di essere duri con i giovani di origine straniera che rimangono ai margini della società danese. Non solo. Nell’aprile scorso la Danimarca ha stretto un accordo da 15 milioni di euro per spedire in un carcere alle porte di Pristina, in Kosovo, 300 detenuti stranieri che alla fine della pena verranno smistati nei loro Paesi d’origine. Il tipo di misure contro le quali Frederiksen ventenne avrebbe manifestato, visto che nel 2000 denunciava la politica «rifugiati zero» dell’allora Governo. Mentre ora ha revocato il permesso di soggiorno ai rifugiati siriani provenienti da zone considerate non a rischio, ha votato a favore di una legge che permette di sottrarre i gioielli e gli oggetti preziosi ai rifugiati, non ha ostacolato l’idea di vietare burqa, niqab e nel 2019 il suo partito ha votato a sostegno del famigerato «cambio di paradigma» per fare del rimpatrio, invece che dell’integrazione, l’obiettivo ultimo dell’asilo politico.
Sul palcoscenico del dibattito danese dal 2018 c’è anche il tema delle «società parallele» – ossia dei «ghetti» definiti tra le altre cose anche attraverso una maggioranza di abitanti di origine non danese – che vanno smantellate in quanto rappresenterebbero una minaccia per i valori nazionali. Ma sebbene in altri Paesi argomenti del genere abbiano portato a polemiche e carriere in bilico – come quella di Suella Braverman nel Regno Unito (leggi sopra) – la crisi di Mette Frederiksen è avvenuta per ben altri motivi. Dopo essere stata generalmente elogiata per la sua gestione della pandemia, il dossier politico più spinoso finora è stato quello degli ermellini, colpiti da una variante animale del Coronavirus. Nel novembre del 2020 la «ministra di Stato» ha ordinato l’abbattimento di 17 milioni di bestiole, delle cui pellicce la Danimarca è il primo esportatore al mondo. Purtroppo per Frederiksen non c’erano le basi legali per imporre la misura agli allevatori e per questo ha preferito andare alle urne prima del previsto, portando appunto a casa una vittoria risicata.
Amante dei social network e decisa a dare di sé un’immagine di donna colta ma attaccata ai piaceri semplici del popolo, come il panino con l’aringa, la premier ha due figli e ha avuto il suo primo Ministero a 33 anni, oltre a essere diventata la leader di Governo più giovane della storia del Paese, che già dal 2011 al 2015 è stato guidato da una donna, la socialdemocratica Helle Thorning-Schmidt. In linea con la sensibilità danese, anche quest’ultima proponeva misure come far lavorare di più gli immigrati prima di concedere loro sussidi e benefits e suggeriva di «attivare» i rifugiati facendo loro fare lavori utili come la pulizia delle spiagge. Ma Frederiksen è considerata più potente, più influente. Quasi quanto quel personaggio di fantasia, così reale e immortale per gli amanti di serie televisive che è Birgitte Nyborg, la protagonista di Borgen.