La giornata comincia presto. Comincia in quel momento indefinito del passaggio dal buio alla luce che gli induisti chiamano Sandhya. La promessa di un nuovo giorno, il momento della preghiera. È la campanella del tempio a fare da sveglia, seguita dal salmodiare dei mantra mattutini. Pian piano gli uccelli, che avvertono l’avvicinarsi dell’alba, si uniscono al coro. Il sole sorge lento all’orizzonte, una palla di fuoco che incendia cielo e fiume rivestendo i ghat, le gradinate sul Gange, di una luce irreale salutata dalle preghiere e dalle abluzioni di migliaia di pellegrini. Migliaia di persone che si muovono lente riempiendo l’aria di canzoni, di parole, di profumi di incenso e di fiori.
Dentro al fiume grigio, poi rosso e poi risplendente d’argento, donne, uomini, vecchi e bambini si immergono per tre volte levando le mani al sole, offrendo fiori, mantra, frutta e barchette di foglie su cui galleggiano pallidi lumini, più fiochi via via che la luce diventa più forte. In tutta la città, una confusione colorata di sari, ceste, fiori, incensi e asciugamani si srotola lungo le rive del Gange a salutare il sole che sorge. Il ghat comincia a prendere vita: si va al fiume per pregare, per lavarsi, per incontrare gli amici, per bere un chai, il tè indiano. I pellegrini si accomodano attorno ai bramini per celebrare rituali e per essere benedetti. I pescatori sistemano le reti, i barcaioli vanno a caccia di pellegrini e turisti, le mucche, le capre e i bufali passeggiano tranquilli o si immergono nel fiume. I bambini si rincorrono giocando tra spruzzi e risate. Le donne si immergono in sari, gli uomini con un lunghi, uno straccio intorno alla vita.
Più in là, ai negozietti del tè, gli uomini leggono il giornale o chiacchierano davanti a una tazza fumante. Qualcuno, distante e isolato dai gruppi, medita di fronte al sole che nasce. Qualcuno legge le sacre scritture, qualcuno accenna un asana di yoga. Le donne che hanno fatto il bagno, dopo essersi cambiate il sari, si riuniscono a crocchi pettinandosi a vicenda e scambiando pettegolezzi. Ragazzini offrono fiori e candeline, studenti d’arte o di fotografia disegnano e scattano. Turisti osservano interdetti o affascinati la confusione sempre più variopinta. Man mano che la luce diventa più vivida, il tè viene sostituito dalle padelle della prima colazione: patate piccanti e roti, un pane sottile cucinato sulla piastra. Il barbiere seduto all’angolo del tempietto per strada comincia a lavorare a pieno ritmo, le donne tornano a casa e alle loro faccende mentre il ghat si affolla sempre più di uomini venuti a fare due chiacchiere con gli amici e a leggere il giornale. Non sono ancora le sette, ma a Benares è già nato un altro giorno. Come domani o come mille anni fa.
Benares, come la chiamano i suoi abitanti, Varanasi, come la chiama il governo o Kashi, come la chiamano i bramini, è una città unica nel suo genere, che racchiude e dilata fino al parossismo tutte le contraddizioni, le bellezze e le brutture dell’India di ieri e di oggi. Un posto che sfugge a ogni definizione e a ogni tentativo di descrizione. «Benares è più antica della storia, più antica della tradizione, più antica addirittura della leggenda, e appare vecchia il doppio di tutte queste cose messe insieme» scriveva Mark Twain. E, come al solito, coglieva nel segno. Si dice che Benares sia la più antica città del mondo ad essere ancora abitata: più antica ancora dello stesso Gange, che secondo la mitologia è disceso sulla terra soltanto molti anni dopo. Più antica dei Veda, le Scritture induiste, più antica di quanto non facciano sospettare le più antiche costruzioni che si possono ancora ammirare in città. Nessuno degli edifici ancora in piedi è più antico di due-trecento anni: ma, nonostante questo, tutto appare coperto, levigato e corroso dalla polvere dei secoli e della storia.
E Benares appare agli occhi dei viaggiatori esattamente come viene descritta nelle più antiche cronache di viaggio conosciute: rumorosa, confusionaria, sporca, cadente eppure, nonostante questo, dotata di un fascino inspiegabile e arcano. Un luogo che si può detestare o amare perdutamente, ma che non lascia mai, proprio mai indifferenti. Quasi identica nell’apparenza, ma, soprattutto, identica nella sostanza. Basta leggere le cronache dei primi occidentali che hanno visitato la città, guardare le antiche stampe per rendersene conto. A Benares, il tempo scorre in modo diverso: o forse, semplicemente, ha cessato di scorrere. Chi arriva per la prima volta qui da occidente, rimane vittima della misteriosa magia della città o, più spesso, non vede l’ora di scappare: niente qui è facile, non si può dare nulla per scontato. Contro la confusione, il rumore, la puzza, le contraddizioni della città di Shiva si sono infranti molti grandi amori per l’India e per la cultura indiana. A Benares nulla è semplice, niente è come appare.
Benares è composta di infiniti universi uno dentro l'altro, di microcosmi separati che appaiono uno soltanto a uno sguardo superficiale. C'è la città degli studenti, quelli che arrivano da ogni angolo del mondo a studiare o a fare ricerca. C’è la città degli intellettuali che per vari motivi a Benares hanno scelto di vivere. C’è la città degli hippy di ritorno, che vagano per i ghat quasi sempre persi in spesse nuvole di hashish o marijuana. La città dei turisti occidentali e quella dei turisti indiani che in genere con Benares, se sono cittadini e con un certo grado di istruzione, hanno un rapporto molto ambivalente: la nuova e anche la vecchia alta borghesia detestano i posti come questo. Li considerano sporchi, affollati, luoghi che lucrano sulla superstizione bigotta della gente. Per la maggioranza degli indiani però, quelli di province e villaggi, Benares è il sogno di una vita, la città sacra per eccellenza: bagnarsi qui nelle acque del Gange vuol dire essere lavati da ogni peccato.
Pellegrini provenienti da villaggi e cittadine di ogni parte dell’India, spesso a costo di enormi sacrifici o addirittura a piedi, si mettono in cammino per venire a bagnarsi nelle sacre acque del fiume più sacro di tutti. Alcuni di loro compiono il viaggio per essere purificati e rinascere a nuova vita, molti altri arrivano fin qui soltanto per spargere nel Gange le ceneri dei loro famigliari morti. Sono in tanti anche coloro che scelgono di venire a trascorrere qui gli ultimi anni della loro esistenza in preghiera e in meditazione. Abbandonano i figli ormai grandi per dedicarsi completamente alla ricerca spirituale: vestiti di arancione o di bianco, trascorrono negli ashram i loro ultimi anni vivendo in povertà e dedicandosi soltanto a Dio in attesa di venire finalmente liberati dal peso di questo mondo illusorio. Di ritornare alla sorgente. Morire a Benares vuol dire infatti interrompere per sempre il faticoso ciclo delle rinascite: significa ricongiungersi finalmente all’Assoluto. Perché Benares è anche e soprattutto la città della morte. In genere, nelle città indiane, il crematorio si trova fuori città ed è considerato un posto impuro.
A Benares i morti si cremano sul fiume, in pieno centro, e Manikarnika ghat, il principale ghat delle cremazioni, è considerato uno dei luoghi più sacri della città. Qui, la morte è semplicemente un altro aspetto dell’esistenza. Accanto alle pire funebri, poco più in là, i bambini giocano sereni, i lavandai lavano la biancheria e la stendono ad asciugare. Il sole splende, e la gente passa senza volgere lo sguardo o turbarsi attraversando crocchi di gente in lutto accanto alle pire funebri. La città è costruita in modo da guardare il sole che sorge: sull’altra sponda del fiume, ci sono soltanto canneti e campi coltivati. Il suo nucleo più antico si sviluppa lungo le rive del Gange: e il fiume, con le sue gradinate, è parte integrante e cuore della città. Sulle rive del fiume si prega, ci si lava, si celebrano riti matrimoniali o funebri, si gioca, si lavora o semplicemente si guarda l’acqua scorrere e la gente andare e venire. Con la sacra acqua del Gange si lavano gli dei nel tempio e a Ganga, la dea del fiume, si fanno offerte di fiori e frutta.
Nel Gange si gettano le statue degli dei dopo i festeggiamenti, i cadaveri dei bambini e dei santi e le ceneri dei defunti. Con questo trattamento, però, il sacro Gange somiglia ormai sempre più a una fogna a cielo aperto: oltre a fiori, buste di plastica, noci di cocco, incensini, sapone, cartacce, cadaveri, avanzi di cibo e nafta, la povera dea Ganga raccoglie, dalla sorgente alla foce, gli scarichi di tutte le città, e non sono poche, che sorgono sulle sue rive. Sono anni che un piano governativo per la bonifica del fiume attende di essere varato, ma nulla di sostanziale è stato ancora fatto. Nel frattempo sono sorte alcune organizzazioni locali che cercano di sensibilizzare almeno l’opinione pubblica, i cittadini e i pellegrini. In tempi di trionfo dell'estrema destra, ci sono anche attivisti che domandano, tra le altre cose, il totale bando della carne e degli alcolici all’interno del perimetro sacro cittadino. Richiesta, quest’ultima, di non semplicissima attuazione visto che una buona percentuale della popolazione di Benares è composta da musulmani sciiti che, ovviamente, non hanno alcuna intenzione di rinunciare a kebab e pollo tandoori.
E che nel tempio dedicato alla dea Durga ogni martedì di buon mattino si sgozzano un paio di capre in onore della dea, per la gioia di pellegrini e fedeli locali. La Kashi Bachao Abhiyan Party domanda anche, assieme ad altre organizzazioni locali, che i ghat di Benares vengano dichiarati dall’Unesco patrimonio nazionale dell’umanità e che vengano, quindi, preservati dalla commercializzazione selvaggia. Sulle gradinate, infatti, tra tesori d’arte e templi sono incastonati ristorantini, negozietti improvvisati che vendono chai e biscotti, venditori ambulanti, barcaioli, bramini in attesa di clienti. Sui ghat si fanno massaggi, si tengono concerti, cerimonie religiose, si mangia, si beve, ci si fa fare la barba e i capelli. Alcuni sono disgustosamente lerci, altri sembrano un salotto. Qualche tempo fa in uno degli angoli più luridi un emulo di Marcel Duchamp ha attaccato un orinatoio alle mure antiche di un palazzo. Più in là i ragazzi giocano a cricket, i bufali si lavano e riposano. Si stendono i panni sulle gradinate, si montano mostre e spettacoli teatrali.
Lungo il fiume le barche, dotate di altoparlanti, fanno campagna elettorale, celebrano vittorie sportive e feste religiose. Sacro e profano, miseria e splendore sono portati al parossismo: Benares, non ama i mezzi toni, le sfumature. E, soprattutto, non è una città-museo: tra suoi monumenti, la vita scorre oggi come allora. Caos totale o deserto: il culmine è stato raggiunto quando anni fa la festa di Mahashivaratri, in onore di Shiva, signore della città, è coincisa con la partita dei mondiali di cricket che vedeva in campo India e Pakistan: sacro e profano, conditi da una robusta dose di bhang (il succo della canapa indiana distribuito ai fedeli nel tempio per la sacra occasione) hanno reso le vie della città praticamente spettrali. Occasione più unica che rara, da queste parti. C’è la città dei commercianti, infatti, che non chiude mai bottega: oltre l’isola felice dei ghat, ti assale il frastuono e il traffico. Mucche, risciò a pedali e a motore, biciclette, motorini, pedoni, cani e gatti, venditori di verdure, di fiori, di abiti e di qualunque altra cosa sia possibile vendere occupano ogni centimetro di spazio disponibile.
In un pomeriggio qualunque, quattro chilometri di strada sono rimasti bloccati perché passavano contemporaneamente: un corteo elettorale con tanto di elefante, un funerale, un matrimonio e una processione di uomini col tridente e gli abiti arancioni. Tutti diretti verso il Vishwanath mandìr, il tempio di Shiva più famoso e sacro della città. Il tempio sorge in mezzo a un dedalo di viuzze, quasi nascosto. Visto da sopra, rivela due immense cupole di rame dorato. L’interno è scintillante d’argento, saturo di profumi di fiori, di canfora e di incenso e del mormorio dei bramini in preghiera. Ed è presidiato notte e giorno da poliziotti e dall’esercito. Il tempio sorge, difatti, proprio accanto alla più antica moschea cittadina: anzi, pare che la moschea sia stata costruita proprio sulle fondamenta dell’antico tempio distrutto ai tempi di Aurangzeb. Per questo motivo, i nazionalisti induisti che hanno raso al suolo la Babri Masjid di Ayodhya hanno dichiarato che la moschea di Benares sarà il loro prossimo obiettivo.
D’altra parte, infiammare gli animi, a Benares, è una delle cose più semplici del mondo. Si infiammano per la finale di coppa del mondo di cricket, per una lite tra vicini, per l’ultima canzone di Bollywood o per un concerto di musica classica. Si infiammano gli animi di vecchi e giovani, e perfino gli animi degli hijjra, i transessuali, che di recente hanno tenuto nei pressi del tempio di Durga, la dea a cui sono particolarmente devoti, il loro raduno nazionale: dichiarando che andranno a combattere contro il Pakistan se i musulmani non la smetteranno con le infiltrazioni oltre confine. I pellegrini camminano sul confine tra i diversi mondi, sempre in bilico tra sacro e profano. Chi arriva qui per devozione ha un itinerario preciso da compiere: il più lungo, il cosiddetto Panchkroshi yatra, che dura cinque giorni e comprende la visita di 108 luoghi sacri, si snoda su di un percorso di 80 km che forma una specie di mandala intorno alla città. Oppure il più comune Panchtirthi yatra, che si compie in un giorno e comprende la visita dei cinque ghat più sacri. Si comincia da Assi ghat, dove l’antico fiume Asi si gettava nel Gange. Adesso dell’Asi rimane soltanto un rigagnolo, più fogna a cielo aperto che sacro corso d’acqua. Dopo il bagno rituale e le preghiere ad alcuni Shiva-lingam che si trovano sotto un grande albero, si prosegue, a piedi o in barca, per Dashashwamedh ghat. È il ghat più grande e famoso di Benares, il più affollato. Qui si compie un altro bagno rituale, e ci si inoltra negli stretti gallì, i vicoli, per visitare il tempio di Shitala Mata e il tempio della dea Ganga.
Si prosegue poi verso Adi Keshava, il ghat dedicato al dio Vishnu. È uno dei più antichi della città, e si dice che rappresenti i sacri piedi del dio. Secondo la tradizione, infatti, la città viene immaginata come un corpo disteso lungo il fiume: la testa è rappresentata da Assi ghat, il petto da Dashashwamedh, l’ombelico da Manikarnika, le gambe dal Panchganga e i piedi, per l’appunto, da Adi Keshava. La visita prosegue, quindi, verso il Panchganga ghat su cui sorge il tempio di Bindu Madhava. Secondo la tradizione, il grande poeta mistico Kabir, che era nato a Benares, ottenne la sua ispirazione dormendo sui gradini di questo ghat. Sul ghat si adorano cinque fiumi sacri: Dhutapapa (che toglie i peccati), Kirana (raggi di sole), Dharmanada (il fiume del Dharma) e, infine, il Gange, la Yamuna e il Saraswati. A questo punto, si torna indietro per fare l’ultimo bagno a Manikarnika, il ghat delle cremazioni. Dopodiché, si abbandona il fiume per salire i lunghi gradini che portano al tempio di Vishwanath. Compiuto il proprio dovere di bravi devoti, non rimane che gettarsi nella folla dei gallì della città vecchia e darsi allo shopping per comprare immagini sacre, braccialetti, polveri colorate. Senza tralasciare una visita ai negozi che vendono la seta per cui la città è famosa, gli altrettanto famosi giocattoli di legno dipinto da portare ai bambini, e l’immancabile tanica di acqua del Gange da portare a casa.
L’imbrunire porta altre preghiere e altri canti, l’aarti della sera si celebra in grande stile. I pescatori hanno riposto le reti, i bufali tornano nelle loro stalle. Le ombre si allungano sui ghat, che si popolano di venditori di noccioline, di gelati, o di aloo chaat, cibo di strada per cui la città va giustamente famosa. Si popolano di sfaccendati, di mendicanti, di fedeli, ancora una volta di bambini che giocano, di studenti che si incontrano, di coppiette semiclandestine. L’aria profuma di cibo, di risate e di incenso. La città fiorisce di luci che si riflettono sull’acqua, di fiammelle che dalle barche vengono lasciate fluttuare lungo la corrente. La confusione lascia infine posto a una calma riflessiva e solenne, alla luce della luna che si riflette sul fiume immobile e ormai color inchiostro.
I mendicanti si avvolgono nelle loro coperte, cullati da un suono di strumenti suonati in sordina, da qualche parte e dalla voce tenue di madre Gange che scivola pian piano nella notte vegliando sui sogni della città. E mentre le ombre del tramonto si allungano sulla scalinata di Assi ghat, accompagnate dal suono delle campane e dei canti della preghiera della sera, dai fuochi dei venditori di noccioline, dalle chiacchiere sommesse degli studenti d’arte e degli sfaccendati che affollano la gradinata c’è sempre un momento, uno solo, di magico silenzio. In cui contraddizioni, diseguaglianze, domande e differenze si fondono fino a scomparire. E, se ascolti bene, puoi sentire battere forte qualcosa che somiglia a un rintocco profondo: il cuore della città.