Autunno caldo in Libano

Protesta popolare – Una nuova generazione che non si riconosce più nel vecchio sistema di spartizione su basi settarie delle leve del potere e stanca di un’economia al collasso ha innescato una crisi di governo che sta mettendo in difficoltà il sistema politico
/ 11.11.2019
di Marcella Emiliani

Dal 17 ottobre il Libano è in fiamme. Ad accendere la miccia di questa nuova conflittualità è stato l’annuncio del governo di voler tassare le chiamate fatte con WhatsApp, Facebook Messenger e FaceTime, cioè i più diffusi sistemi di comunicazione rapida che tutti conosciamo, scelti non a caso per fare cassa in fretta da un esecutivo ormai arrivato alla canna del gas quanto a disponibilità finanziarie. Fulmineo l’annuncio, fulminea la reazione della popolazione non solo a Beirut, ma in tutte le principali città del Paese: a centinaia di migliaia sono scesi in piazza a protestare non solo contro un provvedimento a dir poco impopolare, ma soprattutto contro il degrado generale del Paese e un’economia ormai al collasso, imputati alla corruzione e al nepotismo dell’intera classe politica ritenuta inetta, rapace e inamovibile.

Quella che doveva essere una protesta pacifica, nonostante la tassa annunciata sia stata subito cassata, è però degenerata ben presto in vera e propria guerriglia urbana e in atti di vandalismo diffusi che hanno portato alla chiusura di scuole, uffici pubblici, negozi e banche nei centri nevralgici come Beirut, Tiro e Tripoli ma anche in centri minori come Nabatiyye e Baalbek.

In prima fila sul fronte delle manifestazioni i giovani, come nelle primavere arabe del 2011, che in tutto il Medio Oriente si sentono letteralmente defraudati del futuro. Sono ormai cinque anni che l’economia libanese rischia letteralmente la bancarotta e nulla è stato fatto per evitare il peggio. A questo si aggiunga una catena di crisi settoriali che sta martoriando il Paese da troppo tempo: la crisi della spazzatura che nessuno riesce più a raccogliere e finisce data alle fiamme per strada; la crisi energetica che persino nella capitale fa mancare l’energia elettrica per diverse ore al giorno; la crisi, infine, legata ai profughi palestinesi e siriani installati nel Paese.

Questo spiega non solo l’immensa rabbia della popolazione tutta, ma anche la prontezza con cui è scesa in piazza a chiedere il licenziamento dell’intero governo e una revisione radicale del sistema di power sharing confessionale che regola la politica libanese fin dall’indipendenza dalla Francia nel 1943. Il movimento di protesta si è auto-battezzato Li Haqqi, (Per i miei diritti) che spiega bene come i libanesi non vogliano più sentirsi «prigionieri» del confessionalismo religioso o di ideologie travestite da credo religioso.

Alla base della politica e dell’economia nazionale infatti c’è ancor oggi il Patto nazionale cioè l’accordo stipulato nel 1943 – e riformulato nel 1989 – tra i notabili delle principali comunità confessionali del Paese per spartirsi, appunto, il potere politico e le risorse economiche in proporzioni dettate dalla consistenza numerica delle suddette comunità. In base a tale criterio la presidenza della repubblica spetta a un cristiano maronita, la premiership del governo a un musulmano sunnita e la presidenza del parlamento ad un musulmano sciita.

Proprio questo sistema ha incancrenito la dinamica politica libanese, perpetuando non solo le barriere religiose, ma il potere delle stesse famiglie cristiane, sunnite o sciite (sono sciiti anche i drusi) che hanno finito per monopolizzare il processo decisionale scavalcando il parlamento e curando in primo luogo gli interessi della propria parentela e della propria comunità confessionale. Questo, in altre parole, è il maggior difetto della democrazia libanese, una delle poche nella regione ma che purtroppo versa in condizioni di salute molto precarie.

Quanto la popolazione non sopporti più i propri notabili del resto lo hanno chiaramente indicato le scritte sui muri e i cori intonati per strada nel corso di questa lunga protesta interconfessionale. Insulti sono stati rivolti al presidente cristiano maronita Michel Aoun; nei quartieri sunniti della capitale e di Tripoli i manifesti del primo ministro sunnita Saad Hariri sono stati strappati e nel sud del Libano – roccaforte degli sciiti – Nahib Berri, leader di Amal e presidente del parlamento, è stato sbeffeggiato dai suoi correligionari, mentre gli uffici di Hezbollah sono stati addirittura presi d’assalto sempre da correligionari sciiti.

Il primo ad arrendersi è stato il premier Hariri che il 29 ottobre si è dimesso dopo 13 giorni ininterrotti di protesta popolare. E dire che il presidente Aoun si era davvero impegnato per costringerlo ad accettare nuovamente l’incarico, cosa che Hariri aveva fatto solo nel gennaio di quest’anno, a sette mesi dalle elezioni politiche che si erano svolte il 6 maggio 2018. Il povero Hariri, del resto, tra il 2017 e il 2018 aveva vissuto momenti davvero poco gradevoli. Nel corso di una visita ufficiale in Arabia Saudita il 4 novembre 2017 aveva annunciato ufficialmente le proprie dimissioni da premier in seguito alle quali però non dava cenni di volere o potere tornare a casa. Aoun parlò apertamente di sequestro di persona ordito dall’erede al trono saudita Mohamed bin Salman, poi intervenne addirittura il presidente francese Macron e Hariri potè tornare in patria e riassumere la carica di primo ministro.

Cosa sia realmente successo in quel frangente non è ancora chiaro, ma pare che Mohamed bin Salman volesse «punire» il giovane rampollo libanese, sunnita come lui, per aver concesso troppo spazio ad Hezbollah e agli sciiti nel governo del suo Paese. In realtà Hezbollah il potere in Libano se lo è preso con le armi e il suo peso politico è enormemente cresciuto grazie alle vittorie ottenute nella guerra civile siriana affiancato dal suo principale sponsor, l’Iran, e più in generale dal trio che ha mantenuto e mantiene al potere Bashar al-Assad a Damasco ovvero, oltre all’Iran, la Russia e la Turchia.

Questo interventismo di Hezbollah in Siria e il milione e mezzo di profughi siriani che si sono riversati in Libano togliendo lavoro agli strati più poveri della popolazione locale, come abbiamo accennato, sono uno dei principali motivi di protesta della popolazione libanese. Su un totale di quasi 6 milioni di abitanti, l’aggiunta di due milioni di persone fra profughi siriani e rifugiati palestinesi di vecchissima data (475.000 secondo l’Unrwa, United Nations Relief and Work Agency, che gestisce i campi in cui sono costretti ad abitare) sono davvero tanti in un paese così piccolo e povero.

I siriani soprattutto vengono ritenuti «intoccabili» perché Hezbollah e l’Iran li proteggono e hanno finito per rappresentare l’incubo dell’ingerenza di Siria-Iran-Russia-Turchia in Libano. E non si tratta affatto di una semplice percezione: con le manifestazioni iniziate il 17 ottobre è la prima volta che Hezbollah viene apertamente contestato da un movimento popolare interconfessionale nelle sue stesse aree d’elezione, Beirut ovest, la valle della Bekaa e più in generale il sud del Libano. Le sue vittorie a livello regionale, insomma, rischiano di costargli parte del consenso e del potere in patria.