«San Gottardo: tempi d’attesa previsti…»: anche durante l’estate appena trascorsa un vero e proprio mantra informativo ha scandito i ritmi del nostro viaggiare, non solo vacanziero. Poi, a settembre, è arrivata la chiusura della galleria (ora riaperta) e l’attesa si è spostata sui cosiddetti percorsi alternativi. Nel frattempo anche le FFS ci hanno «regalato» un’ora in più, un altro tempo di attesa per arrivare a destinazione. Il traffico ferroviario è stato deviato sulla vecchia linea panoramica, il cui nome è già una promessa di bellezza. Ma l’impazienza di giungere finalmente alla meta ha spesso reso vana la possibilità di assaporare la bellezza del paesaggio. Nell’attesa sempre più spazientita appare difficile prendersi il tempo per attendere l’apparire e lo sparire della bella chiesetta di Wassen, per rivivere quel gioco un po’ infantile del lasciarsi sorprendere che ha accompagnato tante generazioni di piccoli (e grandi) viaggiatori.
Durante un recente viaggio mi è capitato di rivivere proprio queste atmosfere ed è stato bello, non solo ritrovare le improvvise apparizioni della chiesetta, ma anche rivedere papà nel vagone ristorante, intento a tenere sotto controllo i cucchiai dell’immancabile minestra d’orzo, minacciata da continue curve e sballottamenti. Il tempo dell’attesa per arrivare a destinazione mi ha offerto così un viaggio inatteso nel tempo dell’intimità. L’ho vissuto come un dono, ben consapevole del valore di questo tempo-altro, prezioso proprio perché spesso inaccessibile nel nostro vivere quotidiano, sempre più in ostaggio ai ritmi del fare, con le sue accelerazioni che impediscono di riconoscere nell’attesa anche una felice occasione per accogliere esperienze significative.
La difficoltà di attendere e il fastidio per l’attesa si manifestano in molti aspetti della nostra esperienza. Basterebbe ad esempio pensare a quando i bambini chiedono alla mamma un regalo e lei magari risponde che sì, lo riceverai per Natale. Grande delusione: siamo ad ottobre, dovrò aspettare un’eternità!
Il desiderio, che è un nutrimento dell’attesa, non viene riconosciuto e coltivato nel suo valore: bisogna spegnerlo, o meglio consumarlo il più presto possibile. Tutto ciò, ovviamente, non riguarda solo i bambini, e non solo perché anche i nostri desideri di adulti vengono spesso soffocati nel loro consumo immediato. Oltre ad ostacolare questa intima esperienza, il fatto di non saper attendere tende pure ad impoverire il nostro agire quotidiano. Se l’attesa è considerata sempre e comunque un intralcio, un’indesiderata sospensione, una costante minaccia al nostro essere presenti sulla scena del mondo, performanti ed efficienti, si perde di vista il suo profondo valore esistenziale. Si dimentica che attendere non significa solo aspettare, ma significa anche prestare attenzione. Attendere significa in primis volgere lo sguardo verso qualcosa che chiama, che ci interpella e ci chiede di prendercene cura. Un’occasione per sottrarci alla pressione costante dell’agenda che riduce l’attendere a una indesiderata costrizione, a un insopportabile aspettare. Consapevoli di questo suo valore, quando l’attesa sospende il tempo del fare possiamo allora provare a sostare nel tempo dell’essere: quel tempo che, tra l’altro, è venuto a cercare proprio me con il sapore della minestra sul Gottardo.
Quando l’attendere si manifesta come attenzione si trasforma in un invito a fare esperienza di noi stessi, a prenderci cura del nostro sentimento di interiorità, ad ascoltare le sue irrinunciabili domande di senso e a dare ospitalità all’altro che è in noi. Allora il tempo dell’attesa non viene più percepito come un vuoto, come una perdita, ma al contrario può diventare il luogo di un’esperienza di pienezza, di un rivelarsi inatteso di ciò che ci abita e in silenzio ci interpella. L’attendere può invitarci ad accogliere un tempo speciale che tocca la qualità del vivere, un tempo così diverso dal tempo che corre veloce e che del vivere misura la quantità. Una specie di kairos, di «tempo riempito dell’adesso», secondo la felice espressione del filosofo Walter Benjamin, così altro rispetto alla corsa agitata di kronos.
In questi momenti l’attesa permette di ricongiungermi con un’esperienza originaria: sentire che ci sono, che sono qui. Sono momenti in cui posso sperimentare quella risonanza con il mondo, così ben descritta da Hartmut Rosa. «Un’apertura – scrive il filosofo – in cui lascio che qualcosa mi tocchi e mi trasformi». Sono momenti che non si possono pianificare ma si producono da sé quando interrompiamo il nostro continuo agitarci in mille attività, e quando impariamo ad ascoltarli.