L’altro giorno, spaccando legna all’alba, mi è tornata in mente la similitudine con i levrieri di una citazione sui ponti di Maillart. La ritrovo, si tratta di una frase posta in esergo al comunicato stampa del MoMA di New York in occasione della mostra – da giugno a ottobre del 1947 – Robert Maillart: Engineer. Senza questa citazione di Sigfried Giedion non mi sarei neanche messo in viaggio: «I ponti di Maillart sembrano saltare sopra fiumi e abissi con l’eleganza e rapidità dei levrieri». «Alcuni ponti di Maillart sono entrati nella lista dei pellegrinaggi mondiali da compiere prima di morire» è invece la frase di Jacques Gubler che mi accompagna incamminandomi appena sceso alla stazioncina di Schiers. Paesino grigionese semidimenticato nel fondovalle, sulla sponda destra del Landquart. Dove s’immette lo Schraubach, torrente tutto matto il cui corso risalgo. Un impianto antiquato di betonaggio, montagne di ghiaia fluviali, cataste di legna ovunque, non un’anima viva, sono gli elementi del paesaggio-arte povera da queste parti. Fino al sentiero che sale di petto nel bosco.
Sulla scelta di quale ponte, tre dei quali (Salginatobel, Aarburg, Vessy) sono i più gettonati secondo Gubler, non c’è stata, per una volta tanto, ombra di dubbio. Non per niente questo ponte verso il quale mi sto inerpicando tra faggi e abeti bianchi, a fianco della Salgina invisibile che sento solo scorrere, appare etereo tra una parete di roccia e l’altra, sulla copertina della prima edizione (1949) del libro di Max Bill su Maillart. Dove ho letto che i suoi ponti «sono sostenuti da questa audacia di concezione e questo rigore di idee che li fanno passare dal materiale allo spirituale, dalla tecnica alla visione estetica». Intravedo qualcosa, tra gli alberi, dopo una cinquantina di minuti a buon passo da Schiers, sul cui territorio comunale si trova ‘sto benedetto ponte che ora si mostra un po’ di più ma non troppo. La visuale, alla fine, scegliendo la via del bosco lungo l’antica mulattiera, non è poi così ottimale visto che si arriva talmente vicino che manca uno sguardo totale. Anche se ora, al cospetto del ponte di Maillart sulla gola della Salgina (798 m), impressiona, da vicino, lo slancio iniziale della campata in beton armato chiaro che balza per novanta metri, a novanta metri di altezza. Progettato da Robert Maillart (1872-1940), ingegnere svizzero innovatore e prolifico la cui fama artistica però è piuttosto postuma, costruito dall’impresa Prader, grazie a una centina in legno-capolavoro di Richard Coray (1869-1946), costruttore magistrale di opere svanite, questo plurielogiato ponte che collega Schuders a Schiers, vede la luce nel 1930. Scendo giù per toccare i piloni snelli a lamelle giganti: tutto è immacolato, tenuto benissimo, nessuna tag né niente a intaccare questo ponte ad arco a tre cerniere eletto monumento mondiale, al pari dunque della tour Eiffel per esempio, nel 1991 dalla American Society of Civil Engineers fondata nel 1852. Ritorno su e percorro, nonostante non ci siano parapetti e perciò per me è un’impresa, in centosettantadue passi decisi, domenicali, vertiginosi, tutto il ponte lungo centotrentatré metri che però così si perde di vista.
Deluso un po’ dalle visuali possibili, sulla strada di ritorno, mai la stessa dell’andata, in direzione Pusserein, ecco che forse una panchina, giù in un prato a ridosso del bosco, apre uno squarcio serio. E infatti, sedendomi sulla panchina di legno, la distanza è quella giusta e qualcosa all’altezza della citazione dei levrieri scatta. La bellezza del ponte è così pura grazie anche al contesto di soli boschi intorno. Ora capisco un po’, per tre secondi circa, perché nel comunicato stampa della mostra al MoMA si tirava in ballo pure Oiseau dans l’espace (1923) di Brancusi. Picnic quasi punitivo oggi, a base di una pera e un paio di carote. D’un tratto, un’occhiata di sole a metà ottobre all’una e uno, acuisce la chiarezza del calcestruzzo. I boschi della Prettigovia, ancora molto verdi, al di là della presenza di conifere varie, mostrano qua e là, appena appena, le prime screziature autunnali. Alcuni pellegrini passeggiano sul ponte a proposito del quale, sempre Sigfried Giedion, in Spazio, tempo e architettura (1941) scriveva qualcosa riguardo al salto, le rocce e la «serena inevitabilità dei templi greci».