Una serie di vivaci interviste racconta la scrittrice tedesca
Fu un successo inaspettato e travolgente. Il romanzo di Irmgard Keun, Gilgi, una di noi del 1931 diede fama e notorietà a una giovane borghese nata a Berlino nel 1905, poi cresciuta a Colonia, che aveva fatto i suoi primi passi in teatro e sognava grandi ruoli. L’anno dopo usciva La ragazza di seta artificiale, che pubblico e critica accolsero con altrettanto favore, la cui protagonista, Doris, appena giunta nella capitale, è affascinata dallo sfavillio del Westen, dove incontra uomini chic e signore eleganti a passeggio sul Ku’damm (il viale di Berlino Kurfürstendamm). La sua ingenuità fa tutt’uno con l’entusiasmo per l’illusoria kermesse di quella metropoli indifferente al destino dei suoi abitanti.
La Keun, quasi cercasse risposte alla propria esistenza, evoca giovani donne alla ricerca di un futuro e di un’identità e si afferma come sensibile interprete di crisi esistenziali. Quei personaggi infatti sono la rappresentazione di un disincanto epocale che caratterizza lo squilibrio di un intero Paese. Ma al tempo stesso danno voce e slancio all’emancipazione femminile attraverso nuove figure professionali, sveglie e ambiziose, alla ricerca di un’identità sociale. Una prospettiva perseguita con determinazione fino alla fine, fra entusiasmi e profonde crisi, successi e sconfitte, come ha raccontato lei stessa, a partire dal 1977 quando fu riscoperta dopo un lungo silenzio, in una serie di interviste per lo più radiofoniche che L’orma editore propone, tradotte da Eleonora Tommasini, nel volume Non sono mai stata il mio tipo a cura di Heinrich Detering e Beate Kennedy. Tra l’altro la casa editrice indipendente romana che pubblica anche il Gran premio svizzero di letteratura Frédéric Pajak riceverà il Premio Enrico Filippini agli Eventi Letterari Monte Verità il 23 marzo alle ore 10.30.
Le parole di Irmgard Keun ci proiettano nella favolosa e spesso drammatica atmosfera degli anni weimariani, quando furoreggiava come scrittrice satirico-umoristica accanto a nomi come Kästner e Tucholsky, incoraggiata a scrivere da Alfred Döblin e più tardi affascinata da Joseph Roth con cui visse un paio di anni in giro per l’Europa per poi rifugiarsi a Parigi, dove lo scrittore morì nel 1939. Ma l’esilio tra Bruxelles, Ostenda e Amsterdam, fu dapprima per lei meraviglioso, circondata, com’era, da splendidi colleghi come Kisch e la moglie Gisela, Arthur Koestler, Stefan Zweig e lo stesso Roth, di cui fa un intenso ritratto, anche se non esita a lasciarlo «con un profondo sospiro di sollievo» per un ufficiale della marina francese con cui va a Nizza. Ma poi, alla notizia della sua morte, gli scrive una poesia in cui riecheggiano ancora i sentimenti di un tempo: «Il dolore, amico mio – vi si legge – rende ogni suono vano, / dove sei, amico mio, voglio ritrovarti com’eri».
L’autrice sembra trasformarsi a tratti, sullo sfondo di terribili eventi storici, in una di quelle sue lontane e indomabili ragazze che osservavano la vita con lo stupore e la curiosità della giovinezza
Imprevedibile e inafferrabile, Irmgard Keun attraversa il Novecento tra entusiasmi e depressioni, conosce la fama e l’oblio totale, viene interrogata dalla Gestapo e fugge in esilio, torna con documenti falsi in Germania, aiutata anche dai suoi, durante la guerra negli anni 1940-45, e vive in clandestinità tra la Renania e la Baviera. Per fortuna sulla stampa internazionale uscì la notizia che si era tolta la vita in Francia con lo scrittore Hasenclever e, a questo punto, i nazisti la depennarono ritenendola morta.
Poi, nel dopoguerra, vittima dell’alcolismo, viene internata per lunghi anni nel padiglione psichiatrico dell’ospedale statale di Bonn. Ma intanto sì lascia alle spalle alcuni romanzi, fra cui Dopo mezzanotte, inquietante rappresentazione della vita e dei bisogni della gente comune durante il nazismo, e l’ultimo, Ferdinand, l’uomo dal cuore gentile, un personaggio incapace di venire a patti con la realtà . Un po’ come lei stessa che in queste interviste veleggia libera attraverso gli anni e si sottrae a qualsiasi definizione. Come ricorda Heinrich Detering nella postfazione, le conversazioni tendono a trasformarsi in letteratura e la scrittrice sembra giocare con il proprio personaggio, con un tocco talvolta di esilarante civetteria. Non si sopporta, è pigra e incoerente, fifona e senza prontezza di spirito, ma sensibile ai complimenti. C’è materia per costruire un’originale figura aliena a ogni forma di condizionamento e pronta a dichiarare di essere sempre stata emancipata e libera. Al punto da non accettare la definizione di femminista: rifugge infatti da qualsiasi categorizzazione così come vede la propria patria ovunque e in nessun luogo.
Non è solo fuggita da se stessa, come qui casualmente ammette, ma spesso anche da rapporti sanzionati e definiti. Come quando lasciò, andando a Ostenda, il marito Johannes Tralow, scrittore e regista teatrale, che simpatizzava per i nazisti. Ma poi come sciogliere il matrimonio? Fu Roth, il nuovo compagno, a consigliarla, mandagli un telegramma: «Vado a letto con negri ed ebrei», e vedrai come si decide a divorziare!
Proprio da queste vivaci interviste nasce un abbozzo di quella biografia che Irmgard Keun non riuscì mai a scrivere, ma che qui diventa una sorta di messinscena, un itinerario quasi picaresco fra storie rocambolesche e strabilianti. E la scrittrice sembra trasformarsi a tratti, sullo sfondo di terribili eventi storici, in una di quelle sue lontane e indomabili ragazze che osservavano la vita con lo stupore e la curiosità della giovinezza. E forse non è un caso che, anche stavolta, non voglia essere individuata, perché, come ha deciso: «Non sono mai stata il mio tipo».
