Via Mala

by Claudia
17 Giugno 2024

Chissà quante volte negli ultimi anni, dal finestrino della posta dopo Zillis, appena prima del tunnel, ho lanciato giù lo sguardo per catturare un frammento di Via Mala. Gola di transito ultranota da secoli con questo magnifico toponimo romano minaccioso, a volte scritto tutto d’un fiato, Viamala. E una mattina di giugno alle 9:41 scendo dalla posta alla fermata Zillis, Viamala-Schlucht (870 m), proprio per entrare nel cuore di questa gola nel punto forse più spettacolare dove per un tratto, dal 1903, esiste come attrazione turistica con biglietto d’entrata e tutto. Proiettate una dopo l’altra, sul muro in beton, sei citazioni di viaggiatori illustri; quella di Nietzsche, per coinvolgimento, è imbattibile: «percepisco la tenebrosa grandiosità della Viamala come riflesso del mio essere».

Visitatori con il chivuei risalgono frastornati. Trecentocinquantanove gradini di pietra portano al cospetto delle pareti di roccia corrucciata in fondo alle quali, muggisce il Reno posteriore. Vicinanza delle due pareti, il pensiero corre alla parola fessura. Uno sguardo-carrellata a sud, ora, dal basso verso l’alto, in questa spaccatura di mondo, agguanta un brandello di paesaggio per appassionati di orridi o vedutisti a caccia del sublime. È l’ombra catturata sotto l’arco a schiena d’asino dei due ponti settecenteschi, in cima al precipizio-fessura alta centinaia di metri. I ponti Wildener, chiamati così non per selvaggità ma per via del capomastro di Davos che li realizza nel 1739: Christian Wildener. Altri due ponti-passerelle qui superano l’orrido in un punto da capogiro. Soffrendo da sempre molto di vertigini anche se ora molto meno, senza guardare giù, li percorro in un amen. Un tunnel-scala scavato nella roccia tormentata nero petrolio, scende giù fino a una piattaforma dove si respira tutta la forza del Reno posteriore. Il suo colore smeraldo fosco, incastonato nella roccia scura, è un contrasto niente male. Stupisce anche il verde dell’erbetta verticale, tranquilla, come se niente fosse. La roccia, stratificata, a tratti è di color grafite. La si nota bene in una digressione del percorso a nord, dove il tragitto è sotto la roccia che sgocciola e ci si potrebbe spingere verso il corrimano per guardar giù ma tra eco mugghiante del Reno posteriore e tutto il resto, già bello che vado avanti, a tentoni.

Risalito sulla strada, ho bisogno di camminare lungo la Via Mala. Ammaliato da quando l’ho sentita nominare per la prima volta da piccolo, di acqua, sotto i ponti, ne è passata. Figuriamoci di quella passata da quando i romani imboccavano questo sentiero che sale e affianca la gola in alto, verso Thusis. All’inizio del sentiero, ancora al margine della strada, il viola-nero dei petali giullareschi dell’Aquilegia atrata, invoglia a camminare per ore. Nel bosco, dopo il liberarsi delle prime endorfine, a pieni polmoni respiro l’odore vitale delle conifere. Diciassette arnie sono poste al margine del bosco verso l’abisso, esiste dunque anche il miele della Via Mala. La quale, oltre a citazioni a non finire, è stata utilizzata pure come titolo – Via Mala (1934) – di un romanzo bestseller di John Knittel a proposito di una tragedia familiare riguardo un padre alcolizzato e violento, proprietario di una segheria, ucciso dalla sua famiglia e sotterrato qui da qualche parte. Lo scorrere del fiume, purtroppo, è sovrastato dal rumore dell’autostrada, sdrammatizzato di colpo dal bianco incantevole delle orchidee selvatiche ai margini del sentiero. Verso le quali mi chino per osservarle come si deve, sono le raffinate e ilari Cephalanthera longifolia. Dopo una mezzoretta, verso la fine del toponimo Via Mala, ecco un dannato ponte tipo tibetano. Pluripremiato, elogiato qui e là, il ponte, opera di Jürg Conzett del 2005 dove adesso, in mezzo, due camminatrici guardano giù il baratro estasiate, a me blocca lo stomaco. E così, guardando dritto e sudando freddo, adagissimo ma non troppo, battendo stupidamente il piede due volte, prima di appoggiare l’altro, percorro i centosettantasei scalini in larice sospesi dai tiranti in acciaio sopra questa gola laterale.

Più volte, ho guardato dentro l’abisso, sull’orlo del baratro interiore, lungo la mia cattiva strada. Perciò ora qui, a novecentodieci metri sul livello del mare alle 10.37 di un mattino verso fine primavera, ne faccio anche a meno.