Cartelli, disegni e personaggi dei manga regolano la vita quotidiana e raccontano un Paese dove anche l’educazione civica diventa linguaggio visivo
Dall’uscita al cinema di Perfect Days, il film di Wim Wenders che racconta la vita di un pulitore di bagni pubblici di Tokyo, è impossibile non essere affascinati dalle toilette giapponesi. Che si tratti di un albergo di lusso, della stazione del treno o appunto di un bagno pubblico sulla strada, l’estetica, l’igiene e la tecnologia di questi luoghi sono uniche al mondo. La cosa che colpisce, oltre all’aspetto tecnologico, è il fatto che non vi siano scritte sui muri né altre imbrattature. Anche perché, va detto, una certa parte delle pareti è occupata da altre scritte e da altri disegni, quelli che spiegano come utilizzare il luogo, sfruttandone tutte le funzioni.
Il Giappone – ci si accorge dopo due o tre giorni, per accumulo, si potrebbe dire – è letteralmente ricoperto di cartelli che segnalano comportamenti vietati, consigliati, opportuni, indicazioni di percorsi, modi di usare strumenti a disposizione del pubblico, modi di camminare, di parlare, di comportarsi. E se non c’è un cartello appeso a una parete, è stampato per terra oppure c’è un addetto o un’addetta che ne regge uno: in testa alla scala mobile delle grandi stazioni, per esempio, un signore solleva un annuncio, che avverte di non lasciare cadere il bagaglio durante la discesa; mentre al museo nazionale di Tokyo una custode, davanti a una splendida statua settecentesca di Buddha, innalza sopra le teste dei visitatori il foglio con il divieto di fare fotografie. Al museo, peraltro, è anche vietato tenere lezioni o spiegare le opere a gruppi di persone, come segnalato da apposito cartello.
È difficile sbagliare qualsiasi cosa quando sei in Giappone: i luoghi sono complicati, le stazioni immense e articolate, le strade spesso tortuose e attraversate da viadotti, sottopassaggi e ponti, la lingua, si sa, non aiuta, eppure è difficile sbagliare perché tutto è segnalato, scritto, disegnato. Inoltre, l’efficienza è alle stelle, se sei comunque in difficoltà , appare quasi magicamente un addetto che ti indirizza con gentile fermezza verso la tua meta. Il mondo risponde attivamente e in modo risolutivo perché tutti rispettano le regole, che sono spesso rappresentate giocosamente, anche quando sono severe.
Fra i soggetti preferiti nelle rappresentazioni di queste regole ci sono i gatti, animali amatissimi in Giappone, quasi sacralizzati, grazie alle loro caratteristiche poco meno che fatate di agilità , ambiguità , silenziosità . Il dépliant del Dipartimento di Polizia Metropolitana presente in tutte le città è molto chiaro: il gattino che guarda il cellulare, ascolta musica con le cuffie o tiene aperto l’ombrello mentre è in bici commette un’infrazione. Lo stesso se non ha i freni funzionanti. È invece un cane, con un sacchetto in mano (o nella zampa) a spiegare a due gatti molto attenti che bisogna rendere bella la città , la quale è di tutti, raccogliendo le deiezioni degli animali da compagnia, come loro.
Anche i turisti sono invitati a seguire alcune regole: a Kyoto occorre essere silenziosi come ninjia e non fumare per strada se si è in movimento o attorniati da persone; tuttavia le battaglie più dure si combattono nei dintorni dei binari di treni e metropolitane: «Smettiamola di camminare con lo smartphone in mano. Alziamo la testa!», recita un cartello diffuso ovunque, in cui quella che sembra una mandria di esseri umani procede ingobbita con gli occhi sullo schermo, ma c’è un signore che finisce addirittura sotto il treno distraendosi con le ultime notifiche o quell’altro, che in realtà è un cinghiale, il quale procede senza guardare mentre chatta e urta gatti, orsi e qualcosa di simile a dei maialini. Altri cartelli inducono alla calma: non arrabbiarti se perdi un treno (in Giappone c’è sempre un’altra soluzione pochi minuti dopo), quindi non cercare di forzare le porte, non imprecare e ovviamente non prendertela con il controllore né tirandogli la cravatta, né tantomeno prendendolo a pugni, a testate o a borsate. Anche i commessi dei negozi vanno rispettati, non si insultano, e se si hanno delle recriminazioni sulla merce si espone civilmente il proprio problema.
L’incontro tra «fumettizzazione» della realtà e regole sociali è fortissimo: la rappresentazione della società è mediata da uno sguardo fanciullesco, forse ironico, certamente fluttuante tra realtà e immaginazione. Del resto l’ukiyo-e (letteralmente «immagini del mondo che fluttua») è stata un’importantissima corrente artistica sviluppatasi in Giappone durante il periodo Edo, tra il Seicento e l’Ottocento, che realizzava stampe e pitture pensate per una produzione di massa e a basso costo; raffigurava scene di vita quotidiana cittadina, dai lottatori di sumo alle cortigiane, dai personaggi dello spettacolo (attori per lo più) alle scene grottesche. Sono tratti comuni ai primi fumetti novecenteschi occidentali, così come a quelli giapponesi, salvo poi la grande svolta verso i manga, che hanno letteralmente costruito un immaginario nuovo e, almeno in apparenza agli occhi del turista, totalizzante.
Passeggiare per Harajuku, il quartiere forse più eccentrico di Tokyo, tra un neko café, un capybara o un mipig café, dove rilassarsi e bere qualcosa in compagnia di gatti, capibara o maialini, significa infatti incrociare centinaia di sguardi di ragazzine con lenti a contatto colorate che ingrandiscono l’iride, trucchi e capelli intrecciati proprio come nei manga, pupazzetti appesi alle borse, chiusi in piccole trousse trasparenti che li proteggono. Le stesse insegne per la strada sono illustrative, il quartiere Dotonbori di Osaka è l’epicentro: enormi granchi, polpi, ravioli, bocconi di sushi sbucano dalla parete dei ristoranti, i piatti succulenti esposti in vetrina sono in pura plastica lucida, poco più in là il pinguino simbolo di Don Quijote, la più grande catena di discount giapponese, sembra caderti in testa.
Volti in una viuzza e il silenzio ieratico di un tempio cittadino zittisce ogni altro stimolo. Un’oasi. Qui la tradizione ha inghiottito la chiassosa e colorata cultura pop, almeno fino al prossimo angolo di strada.






