L’ascesa di mafia e violenza nella comunità palestinese israeliana
A poche settimane dall’entrata in vigore della fragile tregua imposta da Trump, la situazione in Palestina è più precaria che mai. A Gaza, dove la prima pioggia ha messo a dura prova le condizioni degli sfollati, il cessate il fuoco viene costantemente violato dalle Forze di difesa israeliane, che allo stesso tempo bloccano gran parte della Striscia, mentre in Cisgiordania imperversa la violenza da parte dei coloni, che rimangono impuniti. In Israele la società ebraica è sempre più divisa da scandali giudiziari e dalla questione delle commissioni di inchiesta sul 7 ottobre, mentre in quella palestinese la criminalità organizzata continua a mietere vittime seminando terrore. Come se non bastasse, per scongiurare la sconfitta in vista delle possibili elezioni del 2026, Netanyahu sembra intenzionato a riaprire nuovi fronti di guerra, in particolare a Nord con il Libano.
La protesta congiunta
Lo scorso venerdì pomeriggio, in un giardino comunale di Giaffa, si è tenuta una protesta congiunta, arabo-ebraica di solidarietà con il popolo palestinese e contro la criminalità , una delle piaghe più drammatiche che affliggono dall’interno la minoranza dello Stato israeliano. L’iniziativa è stata lanciata dalle sedi locali del partito Hadash che nel comunicato accusano le istituzioni di indifferenza verso gli omicidi dilaganti contro la popolazione araba. Secondo la lista mista tale atteggiamento è da iscriversi nell’ambito del generale disprezzo del Governo israeliano per il valore della vita umana che ne contraddistingue sia le politiche a Gaza e in Cisgiordania, che l’atteggiamento nei confronti degli oppositori sistematicamente minacciati e attaccati verbalmente e fisicamente.
In un recente contributo Mohammed Abu-Nimer, esperto di risoluzione dei conflitti presso la School of International Service dell’American University a Washington DC, ha esplorato l’ascesa della criminalità organizzata e della violenza all’interno della comunità palestinese israeliana. Secondo Abu-Nimer i principali fattori responsabili dell’aumento dell’attività criminale nel corso degli ultimi due decenni sarebbero la frammentazione interna della comunità insieme alle politiche israeliane che hanno esacerbato tali divisioni. A partire dalla fondazione di Israele nel 1948, i Governi sionisti hanno infatti varato numerose politiche volte a limitare le espressioni nazionali, religiose o culturali da parte dei palestinesi che hanno ricevuto la cittadinanza. La frammentazione della comunità palestinese è stata perseguita tramite un sistema amministrativo militare che, tra il 1948 e il 1966, ne ha limitato la mobilità e proibito qualsiasi espressione di identità nazionale o simpatia e solidarietà con i restanti segmenti del popolo in Cisgiordania, a Gaza e nella diaspora. A seguire è stata adottata una serie di politiche di cooptazione e segmentazione per garantire il controllo sulla nuova generazione nata sotto il controllo israeliano.
Frammentazione spinta
La narrazione del Governo ha diviso i palestinesi in categorie, utilizzandole come strumento di sicurezza per garantirsi la lealtà politica. Le agenzie governative e i servizi di sicurezza sfruttano il sistema tradizionale dei clan per penetrare nella comunità , proibire la protesta politica contro lo Stato, incoraggiare processi di israelizzazione e ottenere il controllo sulla terra e sulle proprietà dei rifugiati e degli sfollati interni. Lo stesso vale per il settarismo religioso che vede la fidelizzazione dei leader delle sottocomunità palestinesi divise in musulmani, cristiani, drusi e beduini.  Altri fattori che contribuiscono alla polarizzazione e alla frammentazione interna sono la gratificazione degli aderenti ai partiti politici sionisti, a scapito di comunisti e altri nazionalisti radicali, e l’arruolamento delle comunità druse e beduine nell’esercito. Tali divisioni hanno indebolito la società palestinese fornendo un terreno fertile per la circolazione di armi e la penetrazione della criminalità organizzata, la cui violenza cresce in modo esponenziale dalla Seconda Intifada. Il tasso di azioni criminali e la loro gravità sono aumentati significativamente dopo il 7 ottobre 2023 e la guerra a Gaza, ma soprattutto sotto il Ministro Ben Gvir, compiaciutosi pubblicamente del fatto che i palestinesi si uccidono tra loro.
Nonostante le esortazioni il Governo israeliano ha intrapreso pochissime misure concrete per contrastare le organizzazioni criminali palestinesi, per non parlare del fatto che migliaia di collaborazionisti, trasferiti in Israele tramite programmi di protezione, sono diventati essi stessi attori di spicco della criminalità organizzata mantenendo legami istituzionali con le forze di sicurezza israeliane. Secondo l’avvocata Rawia Handklo, già responsabile del Quartier Generale di Emergenza per la Lotta alla Criminalità e alla Violenza del Comitato Nazionale delle Autorità Arabe, le vite degli arabi sono uno strumento nelle mani di un regime che non esita a sfruttarne il sangue per scopi politici, promettendo sicurezza in cambio della sottomissione civile. «Finché rimarremo indeboliti, confusi, soggetti al caos, sarà facile continuare a controllarci. Come può una società così spaventata, paralizzata e sanguinante, che lotta per la propria vita, riuscire a rialzare la testa e pensare alle elezioni?» ha affermato Handklo in un contributo per «Haaretz». Secondo il quotidiano israeliano, il 70% degli omicidi nel settore arabo è concentrato in due distretti: la costa e il nord che soffrono sia di una carenza di agenti che di stazioni di polizia. Dal canto suo la polizia accusa la società palestinese di manomettere sistematicamente le scene del crimine e la procura di alleggerire troppo le pene impedendo ogni deterrenza.
Oggi le attività criminali organizzate e i conflitti interni tra famiglie e clan costituiscono la principale preoccupazione dei palestinesi di cittadinanza israeliana che vivono in uno stato di insicurezza molto maggiore rispetto a quello dei corrispettivi ebrei, subendo quotidianamente sparatorie per strada e reati contro la proprietà . Secondo le statistiche pubblicate a novembre 2005, le vittime dall’inizio dell’anno sarebbero 150, 128 uccise a colpi di arma da fuoco, 74 in età dai 30 anni in giù. A farne le spese sono anche i minori con 3 morti nel 2025, ma soprattutto le donne con 14 vittime nel 2025. Il Rapporto del Parlamento Israeliano per la giornata della lotta alla violenza contro le donne della settimana scorsa ha rivelato dati inquietanti secondo cui le donne arabe, che costituiscono solo il 21% della popolazione femminile del Paese, costituiscono il 53% dei femminicidi dell’ultimo decennio. In Israele i femminicidi sono aumentati del 48% solo nell’ultimo anno.
