Sarajevo e le ombre rimaste dopo l’assedio

by azione azione
1 Dicembre 2025

Sarajevo è una città speciale. Per cominciare sorge sul confine tra Oriente e Occidente, tra mondo ottomano e asburgico, dove le diverse fedi si incontrano: cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei. A Sarajevo la grande storia si mescola con la vita quotidiana: qualche anno fa passeggiavo sulla riva del fiume Miljacka, vicino al Ponte Latino, quando scoprii che proprio in quella via, chiamata Obala Kulina bana, Gavrilo Princip sparò all’arciduca Francesco Ferdinando: fu la scintilla che fece scoppiare l’incendio della Prima guerra mondiale, con i suoi milioni di morti. E poi l’assedio più lungo della storia europea del Novecento (1992-1996), dopo che la Bosnia Erzegovina proclamò la sua indipendenza dalla Jugoslavia.

In quegli anni i civili vivevano sotto la costante minaccia dei cecchini serbo-bosniaci, appostati sulle alture che circondano da ogni lato la città. La via principale, Meša Selimović Boulevard, divenne tristemente nota come «Via dei cecchini» (Sniper Alley). I luoghi più comuni – strade, fermate dei mezzi pubblici, negozi, fontane – si trasformarono in aree ad altissimo rischio, spesso segnalate da cartelli. Per gli abitanti ogni spostamento quotidiano – andare a prendere l’acqua, fare la spesa, raggiungere il posto di lavoro – implicava un rischio mortale; da qui un senso di terrore e una sorveglianza costante. Ricordo il senso di claustrofobia che provai attraversando il tunnel segreto costruito sotto la pista dell’aeroporto, un’arteria vitale per rifornire la città e per lungo tempo l’unico collegamento tra gli assediati e il territorio controllato dall’esercito bosniaco. Gli abitanti di Sarajevo tentarono di adattarsi restando il più possibile in casa o nei rifugi sotterranei, ma anche così diecimila civili furono uccisi in quegli anni, più di duecento direttamente dal tiro dei cecchini, tra loro sessanta bambini.

Ora recenti inchieste giornalistiche e giudiziarie hanno fatto emergere un’ipotesi agghiacciante, già anticipata nel documentario Sarajevo Safari del 2022: durante l’assedio diversi stranieri avrebbero pagato somme elevate (anche centomila euro) in cambio della possibilità di sparare sui civili da posizioni sicure. In attesa di conferme definitive, molti dettagli restano da chiarire, a cominciare dalla provenienza di queste persone: quasi certamente l’Italia, probabilmente anche Russia, Canada e Stati Uniti. Si trattava evidentemente di persone agiate e sembra che a spingerli non fossero tanto motivazioni politiche o religiose, quanto piuttosto la passione per le armi di precisione. Anche per questo, nel raccontare la vicenda, è stato spesso utilizzato il termine safari.

Diversi giornali hanno parlato invece di «turismo della morte» o di Dark Tourism. Viene spontaneo, ma non credo sia la scelta giusta. Il termine Dark Tourism fu coniato una ventina d’anni fa, per indicare «il viaggio verso luoghi associati alla morte e ai disastri» (Philip Stone). Questa forma così particolare di turismo ha rivelato un lato nascosto della natura umana: la curiosità e l’attrazione verso le scene di tragedie, battaglie, massacri o crimini efferati. La lista delle possibili destinazioni è già imponente: Auschwitz-Birkenau in Polonia, i campi di battaglia della Prima guerra mondiale a Verdun o Ypres, le vie di Londra dove colpiva Jack lo Squartatore e così via.

Gli studi in questo campo hanno profondamente rinnovato la stessa definizione di turismo, prima associata solo al piacere e al divertimento (Leisure). E tuttavia il Dark Tourism cammina su ghiaccio sottile; ogni nuova iniziativa porta con sé discussioni, polemiche, controversie. Anche Sarajevo naturalmente è una possibile meta da questo punto di vista, ripercorrendo i luoghi del famoso assedio. Ma nel Dark Tourism non c’è mai approvazione o celebrazione del male, quanto piuttosto un invito a indirizzare la nostra naturale fascinazione nei confronti della malvagità e del macabro verso la riflessione, la comprensione, il ricordo delle vittime.

I cecchini volontari di Sarajevo dunque non sono dei turisti, sono semplicemente dei sadici. Nel mio lavoro di storico ho incontrato spesso queste figure, perché ogni epoca ha offerto loro ampi spazi d’azione. Erano i persecutori delle «streghe», i torturatori, i boia, gli entusiasti carnefici nei campi di concentramento nazisti, le polizie segrete delle dittature: la parte peggiore dell’umanità.