Woody Allen e la fragilità come stile
Stewart Königsberg festeggia oggi novant’anni tondi tondi. È infatti nato e cresciuto nel rione di Flatbush – quartiere di Brooklyn – il primo dei trentun giorni dicembrini del 1935. Stewart divenne Woody Allen alla fine degli Anni Cinquanta. Essere espulso da diverse scuole per il suo modo d’imitare i prof fu il suo colpo di fortuna. Rosso di capelli, occhiali neri dalla montatura pesante, con un fisico così esile che non poteva trasmettere grande virilità e per di più ebreo, fu il bersaglio ideale dei bulli ai quali rispondeva con battute fulminanti che gli risparmiarono qualche manrovescio, ma che soprattutto attirarono l’attenzione di lungimiranti talent scout quando finirono su un giornaletto scolastico.
Gli Stati Uniti sono cambiati quasi repentinamente: sull’onda lunga dell’entusiasmo della vittoria contro i nazi, Elvis e il rock‘n’roll scuotono il Paese, gli addetti al terziario superano quelli ancora dediti all’agricoltura, le università registrano un boom senza precedenti di iscrizioni e quella del Secondo Dopoguerra è la prima generazione che, dal milavottcent cifola, gode di un’adolescenza senza guerre, ha qualche soldo in tasca e parecchio tempo libero per godere della liberazione sessuale.
Non si ride più con la suocera arcigna e grassa, la comicità di Jimmy Durante e/o Gianni e Pinotto ha fatto il suo tempo. Ecco allora irrompere – nei club newyorkesi – quel piccoletto nevrotico che spiazza tutti con battute tipo: «Da piccolo desideravo tanto un cane. Però i miei erano così poveri che mi regalarono una formica». Incassato un formidabile applauso, lo stand up comic insiste: «Quando venni rapito, i miei genitori si misero subito all’opera. Pubblicarono sui giornali questo annuncio: affittasi camera singola con angolo cottura». La sua passione per la filosofia gli suggerisce altresì battute tipo: «Nella Critica della ragion pura di Kant trovai il titolo del mio primo bestseller: Ragioni del torto marcio». O ancora: «Fui espulso dalla facoltà di filosofia quando mi sorpresero a sbirciare nell’animo del mio compagno di banco».
Sbarca a Hollywood nel 1965 come sceneggiatore (e un cameo) di Ciao, Pussycat. Cast stellare dove figurano Peter Sellers e Romy Schneider, Peter O’Toole, Capucine e Ursula Andress. Tuttavia, agli occhi di Woody, il risultato è così deludente da suggerirgli di passare alla regia: «Avevo qualche perplessità , sapete – confesserà col suo tipico intercalare – quando leggevo che Michelangelo Antonioni studiava ogni singola inquadratura per due ore, minimo… minimo, mi chiedevo se quella del regista fosse davvero la mia strada. Io mi limitavo a sistemare la cinepresa più o meno dove capitava e a battere il ciak».
Compie dapprima un apprendistato con Herbert Ross, il quale lo dirige in Provaci ancora, Sam (irresistibile omaggio a Humphrey Bogart). Sul set conosce Diane Keaton, destinata a diventare sua compagna di vita nonché musa ispiratrice. È lei l’Annie Hall del film omonimo col quale Woody si aggiudica ben quattro Oscar nel 1977, evento sorprendente poiché i giurati dell’Academy sono tradizionalmente poco propensi a premiare le commedie. Però non va a Los Angeles a ritirare le statuette: quella sera è impegnato a suonare (male: l’abbiamo sentito anni dopo a Lugano) il clarinetto in un club newyorkese.
Procede con l’incredibile ritmo di un film all’anno per almeno un paio di decenni, regalandoci perle come Amore e guerra, Un’altra donna o Misterioso omicidio a Manhattan. Lui dice che così facendo non si lascia(va) scappare i suoi fidatissimi collaboratori: in primis lo scenografo/costumista Santo Loquasto e la montatrice Susan Morse. Quanto ai direttori della fotografia, ecco Sven Nykvist (già collaboratore di Ingmar Bergman), Carletto Di Palma (Michelangelo Antonioni) o Gordon Willis, cui si deve il b&n di Manhattan, miracolosamente adagiato sulla Rapsodia in blu di George Gershwin.
Buon compleanno, Zelig d’un Woody!
