Quattro pizze per una poesia

by Claudia
15 Settembre 2025

Suona il telefono. Rispondo.
«Buonasera due margherite una quattro stagioni una prosciutto e funghi passo io quando?», dice una voce femminile un po’ spiccia. «Segni nome Leonida».
«Buonasera», dico. «Mi dispiace, Leonida, ma lei ha sbagliato numero».
«Come, non è il tre sette nove quindici otto trecentoventidue?», dice Leonida.
«Ha dimenticato il sei finale», dico. «Senza il sei è il mio numero, con il sei è la pizzeria».
«E lei come lo sa», dice Leonida, «qual è il numero che sto cercando io?».
«Perché ogni sera c’è qualcuno che sbaglia», dico, «e alla fine ho imparato».
«Ha imparato cosa?», dice Leonida.
«Il numero giusto della pizzeria per asporto “da Max”», dico.
«Ah», dice Leonida. «Quindi sono in tanti a sbagliarsi?».
«Siamo per natura fallibili», dico. «E talvolta, quando si ha fame, non si fa troppa attenzione ai particolari».
«Lei è un uomo profondo», dice Leonida.
«Sono un palombaro dell’anima», dico.
«Che fa, mi prende in giro?», dice Leonida.
«Ma no», dico, «stavo solo scherzando. Pensavo a Corrado Govoni».
«Govoni quello delle passamanerie in via Gozzano?», dice Leonida.
«No, il poeta Corrado Govoni», dico. «Che scrisse una poesia intitolata appunto Il palombaro».
«E come fa?», dice Leonida.
«“Palombaro, becchino mascherato che ruba cadaveri d’annegati, uomo pneumatico, assassino ermetico”», dico.
«Ma questa non è mica poesia!», dice Leonida. «Questo è un film horror!».
«E come dovrebbe essere, secondo lei», dico, «una vera poesia?».
«Posso recitargliene una, se vuole», dice Leonida.
«Indovino: una poesia sua?», dico.
«Naturalmente», dice Leonida.
«Mi dica», dico.
«“Sorge il sole; poi tramonta e la luna lo rimpiazza; Io, qui, sola nel mio letto, se non vieni vengo pazza”», dice Leonida.
«Mmmm», dico.
«“Mmmm”, cosa?», dice Leonida.>
«Questa poesia me ne ricorda un’altra», dico.
«Non ho mica copiato!», dice Leonida.
«Per carità!», dico. «Ci sono certi temi che, nella poesia, sono eterni, ed eternamente ritornano».
«Eh già», dice Leonida.
«Così è», dico.
«E, senta», dice Leonida, «qual è la poesia che secondo lei somiglia alla mia?».
«“Δέδυκε μὲν ἀ σελάννα καὶ Πληΐαδες· μέσαι δὲ νύκτες, παρὰ δ’ ἔρχετ’ ὤρα·ἔγω δὲ μόνα καθεύδω”», dico.
«Suona bene», dice Leonida. «Cos’è, tedesco?».
«Greco antico», dico.
«E… vuol dire?», dice Leonida.
«“La luna è tramontata, e anche le Pleiadi; è mezzanotte, il tempo passa, e io dormo sola”», dico.
«In effetti», dice Leonida.
«È di Saffo», dico. «Più di duemila anni fa».
«Duemila anni», dice Leonida. «Ed erano già così avanti. Ma…».
«Ma?», dico.
«Ma. Diciamo che…», dice Leonida, «in effetti la mia poesia, all’inizio, era un po’ più ardita».
«In che senso?», dico.
«Potrei tornare alla prima stesura», dice Leonida.
«Non mi tenga sulle spine», dico.
«Nella prima stesura, quella di getto», dice Leonida, «perché sa, io, le poesie, le scrivo di getto, avevo scritto: “se non scopo”».
«Ehilà!», dico. «Che ardimento».
«Comunque», dice Leonida, «capisco che lei se ne intende, di poesia».
«In realtà il mio campo è la prosa», dico.
«La prosa?», dice Leonida.
«Mi occupo di romanzi», dico.
«Allora deve assolutamente venire a cena con noi», dice Leonida.
«Con voi?», dico.
«Sì! Sono qui con le mie tre amiche, e tutte e tre hanno scritto un romanzo», dice Leonida.
«Tutte e tre?», dico.
«Sì», dice Leonida. «Il mio campo invece è la poesia».
«La poesia è difficile», dico.
«Non lo dica a me. Allora, ci raggiunge?», dice la voce femminile.
«Va bene», dico, «vi raggiungo».
«E che pizza vuole?», dice Leonida.
«Verdure senza mozzarella», dico.
«Va bene. Le do l’indirizzo», dice Leonida. «Il campanello è Leonida Foulard».
Prendo nota dell’indirizzo. Metto giù il telefono. Un momento dopo risuona.
«Buonasera vorrei due margherite una quattro stagioni una prosciutto e funghi una verdure senza mozzarella passo io quando?», dice Leonida.