Incontri: storie di chi esce dal carcere e ricomincia la vita fuori anche con l’aiuto del progetto Obiettivo Desistenza
Entro con un po’ di timore. Non so cosa mi aspetti, che persone ci sono, come saranno, come mi accoglieranno. Non so che tipo di atmosfera: tristezza, imbarazzo, rabbia?
Entro nella sede del progetto Obiettivo Desistenza perché sono invitata lì a pranzo. Voglio conoscere persone che stanno compiendo un passaggio, da dentro a fuori il carcere, da un mandato penale a una vita sociale in libertà.
La tensione sparisce appena varco la soglia. Mi pare di entrare in una casa. C’è una signora che potrebbe essere mia mamma, intenta a tagliare gnocchi mentre ride e si tocca la faccia lasciandovi un po’ di farina. C’è un uomo accanto a lei che identifico subito come educatore: il sorriso calmo e intenso, l’attenzione per tutti quelli che gli stanno intorno. Qualcuno sta preparando l’insalata, altri mettono tavola, vassoi di gnocchi passano da una stanza all’altra in attesa di essere tuffati nell’acqua. Si parla concitatamente, come nelle famiglie. Qualcuno è in balcone a fumare, poi rientra.
Mi siedo accanto a una ragazza elegante, con gli occhiali, che mi fa pensare alla maestra di violino di mia figlia; parliamo di blues, dell’importanza di fare esercizio fisico e d’amore: lei si è appena innamorata di un ragazzo come lei ospite dello Stampino, ma in quella struttura semi-aperta non ci si possono dare né baci né carezze, quindi è frustrante.
Un paio di utenti si mostrano diffidenti: farai fotografie? Cosa scriverai? Tutto quello che diciamo finirà sul giornale? Ma poi piano piano anche loro si rilassano. Mi raccontano che la gente ti guarda con occhi timorosi o affascinati quando dici che sei stato in carcere, e non si sa cosa sia più offensivo. E invece, quello che cercano, mi dicono, è più che altro di essere guardati come persone.
Gli gnocchi sono squisiti; nessuno rifiuta il bis. A tavola si parla di chi sta allo Stampino e delle sue regole, ma anche di altro, gastronomia, ricordi vari, progetti. Con il caffè mangiamo la torta dell’educatore sorridente, il quale poi alla fine capisco che fa parte come utente del programma Obiettivo Desistenza. La «mamma» invece è una volontaria. Che strano: non c’è nessuno qui dentro che mi pare diverso da me, dai miei parenti, dai miei amici, dalla gente che frequento. O forse non è strano. Forse è veramente qualcosa che può succedere a chiunque di noi, in una fase della vita. Come avere un momento di profonda tristezza, come un attimo di estrema fragilità: anche uno scivolone fuori dalla legge, il rialzarsi, il riprendere a camminare, sono tutte possibilità. Sento che con questo pranzo ho abbattuto un confine immaginario, tra un noi e un loro, che non esiste.
Christian
Ci incontriamo a Lugano, vicino alla casa di una anziana signora a cui porta la spesa. Sembra rilassato e sicuro di sé. Da poco è uscito di prigione, dove ha passato dieci anni, adesso è sulla trentina. Christian (nome di fantasia), dice che è stato arrabbiato per quattro anni, poi è iniziato il suo grande cambiamento. Prima di tutto ha riflettuto, molto; e poi ha trovato la fede. «Con la preghiera è iniziata la pace», mi racconta. «Ma sono serviti anche i corsi di comunicazione non violenta, di gestione delle emozioni, di empatia. Prima ero un disastro in queste cose e l’ho combinata grossissima. Ora mi sento un’altra persona: gli anni ti trasformano. Sette alla Stampa e tre allo Stampino. Ne avevo presi 15, poi però mi hanno diminuito la pena. Il primo congedo l’ho avuto dopo sei anni. Sono andato a casa dai miei genitori. Mi sono venute le vertigini: tanta gente, troppa confusione, troppe emozioni, sono andato in ansia. Poi però quando sono ritornato in cella per quasi un mese rivivevo i dettagli di quelle poche ore, continuamente, e non aspettavo altro».
Ci vuole tempo per riabituarti alla gente, al rumore, all’altezza. I suoi abitano in un palazzo: in carcere non ti affacci mai da un quinto piano. Perdi anche l’abitudine di camminare su un sentiero, o sulla sabbia: il terreno è sempre liscio. Fare il bagno. Parlare con una donna. Decidere dove andare.
Dentro hai sette ore di visita al mese, per il resto ti occupi in modo proficuo, se vuoi: corsi di inglese, di informatica, laboratori, palestra, possibilità di seguire un apprendistato. Allo Stampino sei in un regime misto: hai le chiavi della tua cella e questa ha la porta del bagno, che puoi chiudere. Allo Stampino si è mescolati uomini e donne; ti restituiscono il cellulare, c’è internet, puoi cercare lavoro, esci già con una squadra che ha delle mansioni di pubblica utilità. «Sei un po’ più libero, anche se sempre sorvegliato», mi spiega. «Adesso vivo lì ancora per qualche mese, poi torno a casa; un lavoro per fortuna ce l’ho adesso. Ora per me anche pagare la bolletta del telefono è una cosa bellissima: mi ricorda che sto rientrando nel sistema, che ho di nuovo delle responsabilità».
Christian in questo momento chiede solo che la gente abbia voglia di conoscerlo veramente e di non fermarsi a ciò che ha fatto. Secondo lui i datori di lavoro dovrebbero dare più chances a chi esce dal carcere: «Dentro impari la disciplina, orari, lavoro, regole. Ti entrano dentro». Ma non è facile trovare chi assume chi ha avuto pendenze giudiziarie, quindi per fortuna ci sono i programmi occupazionali, così da costruire un curriculum e ricominciare a farti una rete. «Ora mi piace il giorno e mi godo la vita», mi dice Christian quando gli chiedo in che cosa si sente cambiato. «Prima ero notturno, non mi interessava niente altro. Ero aggressivo e non mi godevo nulla. Il vero clic l’ho fatto dopo quattro anni, quando ho commesso una stupidata in carcere e il direttore mi ha detto: ’Per questa volta non ti trasferisco, ti lascio un’altra possibilità’. Quella fiducia è in assoluto la cosa che più mi ha portato alla guarigione».
Ludovico
Anche lui è allo Stampino, anche lui finisce di scontare la pena (di cinque anni) tra pochi mesi. Avrebbe potuto trasferirsi molto prima nel regime di semi-libertà, ma ha voluto finire l’apprendistato che stava seguendo alla Stampa.
Ha dunque un mestiere, una famiglia, il gruppo di Obiettivo Desistenza, con cui ha fatto amicizia. Però è comunque difficile: finanziariamente, quando esci e ti ritrovi fuori, sei a terra. È difficile trovare un lavoro, una casa in affitto, hai voglia di fare tante cose ma non ti puoi permettere quasi niente.
«Ho l’impressione che la gente mi fissi; ho paura che pensino che mi approfitti della fiducia. Conosco persone che si rifiutano di uscire, anche quando possono, perché hanno paura di commettere di nuovo reati oppure perché temono il giudizio della gente. Io avevo troppa voglia di mettere i piedi in acqua. Quella sensazione… sai, dalla finestra della Stampa si vede un fiumiciattolo: quanto ho sognato di entrarci a piedi nudi!». Però in carcere Ludovico ha imparato a fare gruppo, prima era troppo timido. «Io non mi perdonerò mai quello che ho fatto. Ho fatto soffrire persone e anche la mia famiglia e non tutti i miei cari ora si fidano di me. Ho seguito un percorso di psicoterapia, in cui mi hanno chiesto di scrivere lettere alle mie vittime, mai spedite, però dicevo loro di non tenersi mai dentro il dolore. È dura convivere con la propria colpa. Però mi hanno aiutato a capire perché lo facevo. Per odio verso me stesso. Io mi odiavo, non avevo autostima, ora ho imparato a volermi un po’ di bene. E la psicologa mi ha aiutato a riconoscere i campanelli d’allarme, se dovessi sentirmi di nuovo depresso, subito dovrei chiedere sostegno a un professionista. Mi ha aiutato anche la ginnastica: se sono in forma mi piaccio di più e questo aiuta anche tutto il resto. La prima cosa che ho fatto uscendo è stato prendere un abbonamento in palestra».
Gli chiedo cosa vorrebbe dire ancora: «Che la persona non è il suo reato. Tutti sbagliamo. Ci si può redimere. Non chiudeteci la porta in faccia».
Alessandra
Lei è l’animatrice e la coordinatrice del programma Obiettivo Desistenza, un progetto nato alcuni anni fa in tutti i cantoni latini della Svizzera, ma a cui ora anche la parte tedesca si sta interessando. Il suo ruolo è quello di organizzare attività più volte al mese per permettere a chi ha vissuto l’esperienza del carcere di riattivare le proprie risorse, tornare a essere gruppo, riallacciare contatti con il territorio, prendersi impegni, partecipare.
«Il momento in cui si riparte nella vita è delicato, soprattutto per chi non ha una rete di sostegno. Se hai una famiglia, una casa che ti accoglie, sei più forte, ma ci sono persone che si ritrovano completamente isolate. Qualcuno una volta mi ha detto: “Ho una figlia, lei è la mia ragione di vita: se non l’avessi non so cosa farei”».
Il gruppo Obiettivo Desistenza va al cinema, al lago, al museo, nel bosco, ascolta musica, parla, mangia insieme. Per sentirci umani dobbiamo stringere legami. Per questo è fondamentale avere un posto dove gli altri ti accettano per quello che sei. «Qui si possono fare le prove per il ritorno alla società, a volte tutta la libertà di colpo è troppo. C’è chi viene solo qualche settimana, chi resta con noi mesi. Alcuni fanno amicizia e poi si vedono anche fuori; io porto conoscenti miei, ci sono volontari che si uniscono a noi. Ci viene solo chi vuole, è su base volontaria».
Alessandra Felicioni mi racconta che li vede piano piano ricostruirsi. Hanno perso tutto, libertà, reputazione, lavoro, relazioni, speranza. «Vedo davvero che hanno voglia di farcela. Qui in questo gruppo si sostengono l’un l’altra, rispettano le regole». E alla fine, si fa una cerimonia di fine mandato.
La cerimonia
Ludovico ha finito. Cioè: non è più sotto il controllo dell’ufficio dell’assistenza riabilitativa. In altre parole: non ha più nessuna pendenza con la legge. È libero. Ha trovato una morosa, due settimane fa l’ha portata a Gardaland e si sono divertiti. Ha anche il suo appartamento adesso, e mi dice che la cosa più bella è poter appendere i vestiti. Era stato in un foyer e lì non c’erano armadi, così teneva tutte le sue cose in un sacco. Adesso ha il comodino e tutta la casa bene in ordine; può cucinare e mangiare quando vuole. Cerca lavoro.
Anche a Christian mancano ormai poche settimane. Il giudice gli ha dato il permesso di andare a stare dai suoi genitori. Ora che il percorso giudiziario è terminato, gli si organizzerà una cerimonia istituzionale, a entrambi, in cui le autorità, gli operatori sociali e loro stessi faranno piccoli discorsi e celebreranno questo passaggio importante. Serve a far sentire la persona accompagnata, degna di fiducia, incoraggiata; ci sono motivazioni umane ma anche molto pratiche, perché il rischio di recidiva, è provato, è molto più alto in chi non si sente riaccolto dalla società.
Durante la cerimonia, la rappresentante dell’Autorità di esecuzione delle sanzioni si complimenterà con Ludovico e con Christian per aver finito, per aver riallacciato dei legami e per gli sforzi compiuti. Consegnerà loro un attestato di fine mandato, che testimonia la fine del loro confronto con la giustizia; gli augureranno di poter proseguire nel loro progetto di vita, che garantisca soddisfazioni a loro stessi e a chi sta loro vicino. Il documento sarà firmato dall’Ufficio dell’assistenza riabilitativa ed è una prova di stima nei confronti di qualcuno che, la stima, l’aveva persa da tutti e da tutto, ma in primo luogo da se stesso. Quell’attestato sarà un altro tassello per il loro nuovo futuro.
