Quarant’anni or sono, nello stesso anno della sua morte, il 1985, l’autore di "Polomar" e altri fortunati romanzi prepara le sue famose Lezioni americane, un testo fondativo per molti autori
Nel 1985 Italo Calvino è invitato a presentare, presso l’università di Harvard, le cosiddette Six Memos for the Next Millennium, sei lezioni «magistrali» poi confluite in italiano con il titolo Lezioni americane – Sei proposte per il prossimo millennio.
Un incarico che lo assorbe completamente, al punto da dedicarvi la quasi totalità del proprio tempo. Non solo perché in questi sei interventi intuisce probabilmente il proprio «testamento» di critico e teorico della letteratura – oltreché naturalmente di narratore – ma perché l’invito dell’università di Harvard è dei più prestigiosi: prima di lui avevano tenuto lezioni affini, tra gli altri, personalità come Eliot, Stravinsky, Borges e Paz. Un onore e un onere, dunque, che non intende vanificare.
Nel 1985 Italo Calvino accettò la sfida di spiegare come la letteratura sarebbe sopravvissuta al nuovo millennio
Ne risulta uno di quei testi che, come si suol dire, «hanno fatto scuola». È verosimile anzi che qualunque scrittore del dopoguerra, dai suoi ai nostri contemporanei, in un modo o nell’altro si sia trovato a farvi i conti. Per quale ragione? Essenzialmente perché, si voglia o non si voglia riconoscersi nelle sue posizioni, ci si senta o non ci si senta «calviniani», i princìpi che egli delinea vanno presi in considerazione – ripetiamo, riconoscendovisi o distanziandovisi – in qualsiasi genere di azione letteraria si decida di intraprendere, in particolare nella scrittura di romanzi.
D’altra parte basta scorrere i sei titoli scelti da Calvino per le sue lezioni per comprendere a quali «imperativi» egli ci esorti: nella loro essenzialità, ci riportano al dovere, per qualsiasi scrittore, di liberare la prosa dalla cosiddetta «fuffa» e di centrare con la parola, con il discorso narrativo, appunto l’essenza di quanto si intende raccontare. Tali titoli (l’ultimo mai completato) sono: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Consistenza. Impossibile passarli in rassegna tutti. Ma è già particolarmente indicativo ciò che Calvino ci invita a considerare quando parla di Leggerezza.
Partiamo dall’esordio della sua lectio: «Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-pesantezza, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire». L’attacco, velatamente ironico, è già un annuncio: non si intende parlare ex cathedra ma suggerire un approccio a una tematica cruciale, il rapporto tra pesantezza e leggerezza nella riuscita di un testo.
Calvino confessa, con modestia, che la sua è infine una dichiarazione di poetica. Tant’è che fin dalle prime righe «personalizza» il proprio discorso e parla in prima persona: «Dopo quarant’anni che scrivo fiction, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva del mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso».
Chiunque si misuri con la scrittura di romanzi (ma il discorso è in parte applicabile anche alla poesia) sa quanta rilevanza questa osservazione può avere. E Calvino non tarda a farci entrare nel suo «laboratorio» citando, tra i primi, Kundera e L’insostenibile leggerezza dell’essere: «Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartengono a un altro universo da quello del vivere».
In questo accenno è quella che potremmo chiamare la «scienza» o «arte» del romanzo: svelare l’infinitamente pesante, l’insostenibile appunto, attraverso l’infinitamente leggero, la grande prosa che sorregge gli universi: «Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime; come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi…».
Attingendo a un vasto corpus letterario, che va dagli antichi ai moderni, Calvino giunge poi alle prime definizioni cruciali: «Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni».
Dunque nessuna corsia preferenziale, nessuna «verità» assoluta o senza distinguo: anche la pesantezza (in tutti i sensi del termine) ha la sua ragion d’essere. Ma mai la pesantezza come superflua aggettivazione o inutile sovrapporsi di strati che potrebbero essere tranquillamente diradati o semplificati: «La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: “Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume”».
Bisogna quindi, sostiene Calvino, rendere «con leggerezza» anche la pesantezza, in modo che: «I significati vengano convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza».
E citando Leopardi e la sua «luna» conclude: «La luna, appena si affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo […] Il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare».
Queste sei (o cinque) Lezioni americane di Calvino, a partire da quella sulla Leggerezza, sono allora in primo luogo una «scuola creativa» che non pretende di «insegnare» a scrivere, bensì molto più incisivamente – e compassatamente – di imparare a leggere, cioè a individuare, nelle opere dei grandi autori (lui compreso) ove sia annidato il segreto, il miracolo, il sortilegio che consente alla parola di muoversi al di qua, dentro e al di là del mondo per esprimerlo nella forma giusta per penetrare dentro di noi e farcelo riconoscere meglio e più profondamente – a questo, in fondo, serve la letteratura – di quanto accadesse prima. Ma, appunto, perché questo «prodigio» si verifichi è necessario fare i conti, con più o meno devozione «calviniana», con termini quali Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Consistenza. Un passaggio, probabilmente, imprescindibile per chiunque si misuri oggi con la letteratura.
