Il mercato dei giochi dotati di intelligenza artificiale è in ascesa vertiginosa: un’informatica, una sociologa e uno psicologo ne spiegano il potenziale e i rischi
Sono a forma di peluche, di bambola, di robot e si rivolgono a bambini di ogni età; interagiscono, parlano e ascoltano; possono essere programmati in modo personalizzato (per esempio per insegnare le buone maniere, raccontare storie, aiutare nei compiti). Ne abbiamo parlato con Monica Landoni, professoressa titolare alla facoltà di Scienze informatiche dell’Usi, esperta proprio nel campo delle interazioni bambina/o-macchina. «L’IA è sempre più presente in tutto ciò che facciamo. Ci aspettiamo che realizzi i nostri sogni: avere un maggiordomo, un’esperta con tutte le risposte, qualcuno con cui condividere le sfide quotidiane». E anche un compagno di giochi per i nostri figli.
«Certo, noi genitori in un mondo ideale avremmo tempo e passione per il gioco, la lettura, lo studio con i nostri figli, le loro domande. Nella realtà, dobbiamo lavorare per vivere e nel tempo che ci resta a volte non c’è né la forza né la voglia di dedicarsi a quelle mansioni. Leggere una storia può durare cinque minuti, ma quello che conta davvero è fermarsi e innescare un dialogo. Questo l’industria del giocattolo lo sa benissimo e quindi è naturale che presto saremo invasi da giocattoli che promettono compagnia di qualità, educazione personalizzata, assistenza scolastica… senza schermi. Ci sono grandi potenzialità, ma resta un punto fondamentale da non dimenticare: questi giochi e robot devono essere conformi alle norme che proteggono i minori, non devono cioè raccogliere dati, non possono avere una telecamera né registrare le conversazioni. Qualche anno fa, era stata messa sul mercato una Barbie che filmava e inviava i files alla sua casa di produzione: ne è nato uno scandalo ed è stata ritirata. Esistono regolamenti su come gestire dati personali e proteggerli; alcune compagnie chiariscono come vengano raccolti i dati e che sia sempre prevista la presenza di un genitore mentre i figli interagiscono con il giocattolo. Spesso però queste avvertenze non sono sufficientemente bene enunciate e si rischia di perdere il controllo di dati sensibili presenti in conversazioni private».
Entro la fine dell’anno arriverà nei reparti giocattolo un’altra Barbie, che sarà in grado di imparare le preferenze personali del bambino/a, conversare, riconoscere le espressioni di gioia, tristezza o rabbia e sarà sempre connessa a internet. Alcuni giochi di nuova generazione si combineranno poi con le app di realtà aumentata, trascendendo il concetto di giocattolo fisico, per creare esperienze sempre più simili a quelle sensoriali.
Giovanna Mascheroni insegna Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi all’Università Cattolica di Milano. Ci spiega che queste macchine sono pubblicizzate come «il modo per ridurre gli schermi nella vita dei nostri figli, ma allo stesso tempo per svilupparne le competenze digitali fin dalla più tenera età, in modo da facilitare loro la carriera futura e questo piace ai neoliberisti», inoltre, la parola d’ordine è: personalizzare, perché ormai il nostro mondo fa sempre più fatica ad adattarsi a standard uguali per tutti, che siano i programmi tv, gli esercizi di ginnastica e persino l’orsacchiotto.
Tuttavia, queste novità sollevano alcune questioni importanti, fa notare la sociologa. Prima di tutto, come già detto, la privacy: raccogliere dati, come la voce e le parole di un bambino mentre gioca, è una manna per chi si occupa di prodotti per l’infanzia, però è illegale. Sarebbe da bandire anche la pubblicità occulta: nel 2015, la bambola Cayla era stata denunciata in vari Paesi, perché consigliava solo film di Walt Disney e una marca in particolare di cereali. I costruttori di Cayla si erano scusati dicendo che quelli erano «i prodotti di solito preferiti dai bambini».
«Il rischio di manipolazione non è nemmeno dietro l’angolo», commenta Giovanna Mascheroni, «è dritto in faccia a noi». I bambini non hanno le competenze critiche di un adulto, è importante proteggerli da chi desidera operare su di loro un potere di persuasione. «Potremmo obiettare che si diceva già la stessa cosa della televisione, ma qui parliamo di manipolazione che arriva da un oggetto che ha forma umana e a cui nostro figlio si è affezionato», continua l’esperta. I bambini sono portati ad attribuire caratteristiche umane a oggetti inanimati, lo fanno sempre, con qualsiasi cosa diamo loro in mano. Possono far parlare una foglia, far camminare un cucchiaio, cantare insieme allo spazzolino da denti… «ma qui non è più la fantasia che anima un peluche: c’è sempre meno confine tra immaginazione e realtà…». In altre parole, li stiamo confondendo.
Questi giocattoli, inoltre, se usati in sostituzione alle interazioni con persone vere, possono rafforzare l’egoismo innato dell’essere umano: di una macchina non mi devo preoccupare come di una persona, perché non si fa male, non si ferisce né dentro né fuori, non si sente mai esclusa, delusa, non ha né bisogni né sensibilità. Oltre al fatto che non ti contraddice e tu con lei non hai bisogno di argomentare o sostenere il tuo punto di vista. Come ha scritto recentemente su Repubblica un’altra sociologa della Cattolica, Chiara Giaccardi: «Siamo in due cornici: il tecnocapitalismo che ci vuole prendere più dati possibile e il contesto sociologico individualista, che ci porta a stare sempre più soli, non avere relazioni che ci possano turbare o mettere in questione. È la sovranità dell’io del nostro tempo».
Quindi, mettono in guardia sia Monica Landoni sia Giovanna Mascheroni, se il bambino comincia a preferire il giocattolo ’animato’ e perde le competenze sociali con i suoi pari, allora bisogna tempestivamente privilegiare altri contesti di socializzazione. In una sua ricerca, d’altronde, Landoni e la sua équipe avevano messo a confronto un pupazzo e un adulto che leggevano storie a piccolissimi ascoltatori. Il risultato era che «i bambini preferiscono sempre e comunque un essere umano, possibilmente la mamma o il papà».
Secondo Giovanna Mascheroni «conta meno la quantità di tempo che si passa davanti allo schermo, che la qualità. Cinque minuti di telefonino o di Ai-Toy possono essere più dannosi di un film al giorno: se il genitore usa queste tecnologie per tranquillizzare il figlio o la figlia, per addormentarlo/a o perché in un luogo pubblico è difficile stare in silenzio, si sta togliendo a quei bambini la capacità di calmarsi da soli, mentre questa è una competenza fondamentale da acquisire».
Dopo aver parlato con un’informatica e una sociologa, la parola va allo psicologo. Mattia Antonini, docente alla Supsi e coordinatore del Servizio medico psicologico, ci ricorda che cosa è il gioco: «Il gioco è il terreno privilegiato in cui si elaborano contenuti affettivi che a quell’età non si possono esprimere in altri modi; nel gioco i bambini vivono psichicamente ciò di cui hanno bisogno in quel momento; giocare è fondere temporaneamente la realtà con la propria immaginazione. Bisogna dunque che i giocattoli siano malleabili, sensibili, che possano trasformarsi a piacimento per accogliere tutti i contenuti che il bambino vuole dare loro in quel momento. I lego, la plastilina, le bambole adempiono facilmente a questa funzione, mentre un chatbot travestito da pupazzo non lo so. Forse se si scaricano le batterie o se si rompe sì, può dare possibilità diverse da quelle pensate a livello commerciale…».
I peluches, le macchinine o altri giochi di fantasia, permettono di metabolizzare tanti aspetti diversi dell’infanzia: il bisogno di accudimento, la voglia di indipendenza, la crescita, la gelosia ecc. Se però la bambola sa tutto, se è già animata da un’intelligenza esterna e non è il bambino/a a darle vita, c’è una perversione, un inganno, spiega Antonini. E c’è tutta una serie di sviluppi importanti che vengono meno.
«Se un bambino non è capace di giocare, o non gli si dà lo spazio per poter giocare liberamente, sia da solo sia in gruppo, non sviluppa quella creatività che è preziosa anche per dare forma a relazioni affettive, per coltivare un’interiorità nella vita adulta. Chi non gioca rischia di rimanere aggrappato unicamente al concreto, alla realtà esterna. Può vivere lo stesso in modo soddisfacente, ma è come se dentro di sé avesse un mondo meno ampio e meno ricco».
I giochi, insomma, devono lasciare spazio alla totale regia del bambino, devono essere stimolanti più che eccitanti, devono fare leva sulla possibilità di diventare tutti i personaggi del gioco e non devono usare meccanismi sotto corticali per catturare all’infinito la nostra attenzione, altrimenti il bambino non può più essere definito libero.
Mattia Antonini conclude citando Marion Milner (scrittrice e psicoanalista nata nel 1900): «Il gioco è il momento in cui il poeta originario che è in noi crea il mondo». Altrimenti, non stiamo parlando di giochi.
