Per quasi quarant’anni il nostro Paese ha espresso ambizioni nucleari non solo in ambito civile ma anche militare
«Ci fu un tempo in cui…», a volte le favole iniziano proprio così. Questa non è però una favola bensì un pezzo di storia svizzera, finito ormai nelle retrovie della nostra memoria nazionale. Un capitolo che ci parla di quando la Svizzera aveva ambizioni nucleari, non solo in ambito civile ma anche militare. All’indomani della Seconda guerra mondiale, in Governo e tra i vertici dell’esercito, si immaginava di fare del nostro Paese una potenza atomica, con tanto di bombe da accatastare in qualche arsenale segreto delle nostre forze armate. Una visione che però non verrà mai concretizzata, anche se il Consiglio federale deciderà di accantonare queste ambizioni soltanto negli anni Ottanta del secolo scorso. In altri termini, nel nostro Paese per quasi quarant’anni c’è stato chi voleva far leva sull’arma atomica per garantire sicurezza, e anche la dovuta neutralità , alla Svizzera di allora. Un periodo storico che val la pena di rispolverare; per farlo torniamo alle prime fasi di questa favola nucleare avvolta nella bandiera rossocrociata.
Capacità tecniche insufficienti
Il primo capitolo ci porta in Giappone ed è direttamente legato al bombardamento statunitense di Hiroshima e Nagasaki. Ordigni atomici che provocano la morte immediata di quasi 250mila persone, con un corollario di distruzioni e contaminazioni ad ampio raggio. Immagini che creano sgomento e orrore in tutto il mondo. Ma c’è anche chi, già in quel 1945, rimane in qualche modo affascinato da tanta potenza, seppur distruttrice. Quelle bombe segnano una svolta, nasce un mondo dominato dalla forza dell’atomo, un mondo in cui anche la Svizzera deve in qualche modo riuscire a ritagliarsi un proprio spazio, per ricavarne potere e forza militare. Non per nulla il capo del Dipartimento federale di allora, il liberale Karl Kobel, non perde tempo e già qualche mese dopo il bombardamento sul Giappone decide di creare un gruppo di lavoro chiamato «Commissione di studio per l’energia atomica». Lo scopo ufficiale è quello di immaginare per il nostro Paese un futuro nucleare in ambito civile. C’è però anche un’altra faccia di questa medaglia, quella che mira all’arma atomica. Una faccia talmente nascosta che anche i finanziamenti destinati a questa commissione sfuggiranno al controllo del Parlamento.
Nel suo Storia della Svizzera nel ventesimo secolo, Jakob Tanner cita alcuni documenti di quel periodo, interni all’esercito, in cui si legge tra l’altro: «Dobbiamo dotare le nostre montagne con le armi più moderne e letali, così da scoraggiare i nostri nemici. Si tratta in fondo di una formula moderna della battaglia di Morgarten». Pur di giustificare il ricorso all’atomica tra i graduati dell’esercito c’è anche chi scomoda persino uno degli episodi fondatori del nostro Paese: la battaglia in cui i nostri antenati, armati di sole alabarde, sconfissero gli austriaci nel 1315. A presiedere la «Commissione di studio per l’energia atomica» il Governo nomina Paul Scherrer, professore di fisica al Politecnico di Zurigo e vero luminare in materia, a tal punto che ancora oggi uno dei maggiori istituti svizzeri che si occupa di ricerca di questo ambito porta il suo nome. Scherrer e altri scienziati mettono però in guardia Governo e esercito. Ai loro occhi, fare della Svizzera una potenza atomica è una utopia, un progetto solo teorico. Il Paese non disponeva allora delle capacità tecniche, scientifiche e anche economiche per potersi permettere un’arma di quella portata. Il Governo però decide di restare sulle sue posizioni, e nel 1958 il consigliere federale Paul Chaudet, capo del Dipartimento militare, annuncia pubblicamente che «all’esercito devono essere garantite le migliori armi possibili, e tra queste anche la bomba atomica». Un proposito che crea stupore, pure al di fuori del confini nazionali, e che mobilita anche l’opposizione.
Timore nei confronti dell’URSS
Nasce il «Movimento svizzero contro le armi atomiche», in cui confluiscono i partiti di sinistra, circoli pacifisti e anche gruppi religiosi. Un fronte che lancerà anche due iniziative popolari per frenare le ambizioni del Consiglio federale, che verranno però bocciate. Un risultato che permette al Governo, e anche all’esercito, di continuare a nutrire i propri progetti atomici. Ma da dove arriva questa visione? Quale è l’impulso che spinge i vertici del nostro Paese a perseverare lungo questa via? In piena Guerra fredda emerge un diffuso timore nei confronti dell’Unione sovietica, che raggiunge il suo apice nel 1956, quando l’esercito di Mosca invade l’Ungheria per mettere fine alla rivoluzione che era scoppiata in quel Paese. Nel suo libro sulla storia svizzera, Jakob Tanner scrive: «L’esperienza ungherese permette di dare una forte giustificazione ai piani di armamento nucleare del nostro Paese».
In quegli anni queste ambizioni atomiche si intrecciano anche con quello che passerà alla storia come lo «scandalo dei Mirage», gli aerei da combattimento francesi di cui Berna mirava a dotarsi. Nel 1961 il Parlamento approva un credito di quasi 900 milioni di franchi per l’acquisto di cento di questi caccia militari. «Tuttavia, presto emerge che il costo totale dell’acquisizione supera di gran lunga il budget previsto, a causa delle modifiche necessarie per adeguare gli aerei alle nuove tecnologie elettroniche e per permettere il trasporto di armi nucleari», come scrive lo storico ticinese Maurizio Binaghi, nel suo volume «La Svizzera è un Paese neutrale e felice». Un superamento di spesa che porta alle dimissioni di alcuni alti graduati dell’esercito, mentre il consigliere federale Paul Chaudet si vede costretto a rinunciare a un nuovo mandato in Governo.
Nel frattempo, nel 1968, Stati Uniti, Unione sovietica e Gran Bretagna firmano il trattato di non proliferazione nucleare, per mettere fine o perlomeno rallentare la corsa all’arma atomica. Un anno dopo anche la Svizzera firmerà quell’accordo, pur ratificandolo definitivamente soltanto nel 1977. Ma si dovrà aspettare fino al 1988 per chiudere del tutto il «periodo atomico» del nostro Paese. In quell’anno il Consigliere federale Arnold Koller decide di porre fine ai lavori di un piccolo gruppo di lavoro che ancora si occupava del tema. In ogni caso va detto in conclusione che il nucleare militare ha comunque lasciato una traccia di sé, nelle decine di migliaia di rifugi anti-atomici che ancora oggi troviamo nelle nostre cantine.
