Il piano di pace americano, la risposta degli alleati, l’ombra russa sulla difesa e sulla libertà dell’intero Continente
Probabilmente non è mai successo, nella storia della diplomazia della Guerra fredda, che un media americano pubblicasse le intercettazioni di telefonate nelle quali un emissario della Casa Bianca cospirasse con un funzionario del Cremlino per convincere il suo principale di un piano di pace scritto dai suoi avversari. Quello che per alcuni giorni era sembrato lo sprint finale verso la firma della tanto attesa tregua in Ucraina, da firmare nel giorno del Ringraziamento, sta assumendo sempre più contorni imbarazzanti per la diplomazia di Donald Trump. Anche il terzo tentativo del presidente repubblicano di fare pressioni sull’Ucraina per costringerla a cedere alle richieste russe – dopo gli insulti a Volodymyr Zelensky nello Studio Ovale, a febbraio, e il vertice improvvisato con Vladimir Putin in Alaska, ad agosto – fatica ad approdare al risultato. Inciampando sempre sullo stesso scoglio: il diritto internazionale non contempla la cessione di territori occupati militarmente all’invasore, e un Paese sovrano non può farsi imporre la rinuncia alle alleanze internazionali che sceglie, né alla sua capacità di difendersi.
Il terzo tentativo della Casa Bianca di Trump di ottenere una «pace-lampo» in Ucraina ha però messo in luce una spaccatura profonda all’interno della stessa amministrazione americana. Le intercettazioni delle telefonate tra Steve Witkoff e il consigliere diplomatico del Cremlino Yuri Ushakov, pubblicate da Bloomberg, rivelano infatti un’intesa che va ben oltre un feeling tra colleghi seppure avversari: l’americano ha di fatto chiesto al russo di aiutarlo a promuovere la sua proposta negoziale, proprio mentre Zelensky stava per incontrare Trump per concordare nuovi aiuti all’Ucraina e nuove sanzioni contro la Russia. Una proposta – diventata nota nei media come «I 28 punti», anche se in realtà il numero e il contenuto delle varie bozze sono variati diverse volte – che sarebbe stata scritta in realtà da Kirill Dmitriev, il capo del Fondo sovrano russo cui Putin ha affidato il negoziato con Witkoff. Diversi osservatori hanno notato che perfino le formule linguistiche di molti dei punti della prima versione sembravano essere stati tradotti in inglese dal russo, oltre a contenere sempre le solite richieste del Cremlino: cessione del Donbass (anche nella parte non occupata) alla Russia, riduzione dell’esercito ucraino con rinuncia ad armi a lunga gittata, impegno a non entrare nella Nato e proclamazione del russo come lingua di Stato, insieme al ritorno in Ucraina del patriarcato di Mosca. In altre parole, una capitolazione.
La proposta originaria
Che il testo della proposta originaria era stato ricevuto da Mosca l’aveva confermato perfino Marco Rubio, il segretario di Stato Usa che si configura sempre di più come il leader della fazione opposta della Casa Bianca, che al contrario di Witkoff e del vicepresidente JD Vance condivide i timori dell’Europa rispetto alla minaccia russa. E l’Europa infatti è tornata a sostenere Kiev, come nelle due circostanze precedenti, con una «coalizione dei volenterosi» cui stavolta si è aggiunto anche il Giappone, nel chiedere all’America di non stringere un accordo con Putin sopra la testa dell’Ucraina. L’ennesima conferma della volatilità delle posizioni di Washington ha però impresso una accelerazione del negoziato sull’utilizzo degli asset russi congelati in Europa per finanziare la resistenza e la ricostruzione dell’Ucraina: una questione estremamente delicata, senza risolvere la quale però i 27 già l’anno prossimo si troverebbero a dover trovare nuovi fondi per aiutare Kiev.
Un’assistenza che Bruxelles ormai non considera beneficenza, ma investimento nella propria difesa: mentre la Polonia ha inviato 10 mila soldati a presidiare le proprie infrastrutture, dopo gli attentati esplosivi alla ferrovia che la collega con l’Ucraina, l’intelligence tedesca e britannica hanno denunciato il pericolo di un attacco russo a un Paese dell’Ue – presumibilmente gli Stati Baltici – già tra 3-4 anni. Il commissario alla Difesa Andris Kubilius ha espresso l’auspicio che l’esercito ucraino possa diventare la prima linea della difesa europea a est, in una visione che non tratta più il conflitto come un contenzioso locale tra due Paesi post-sovietici, ma come una minaccia strategica alla sicurezza e alla libertà dell’intero Continente.
Il problema è che l’Ue non possiede – almeno per ora – abbastanza mezzi e armi per poter fare a meno della protezione americana. Il dilemma è stato riassunto molto bene dal leader ucraino, che in un suo discorso alla Nazione ha parlato della scelta tra «la dignità e la perdita di un alleato strategico». Questo è il motivo per il quale Zelensky, d’intesa con gli alleati europei, è entrato in un negoziato difficile con la Casa Bianca, riuscendo a produrre una bozza di accordo molto meno penalizzante per l’Ucraina. E di conseguenza molto meno gradita alla Russia. Che ha risposto con dichiarazioni minacciose di diplomatici e portavoci del Cremlino, e soprattutto con nuovi bombardamenti devastanti, che solo nelle ultime settimane hanno fatto decine di morti civili e minacciano di lasciare le città ucraine al buio e al freddo anche questo inverno. Putin ritiene infatti di non avere bisogno della diplomazia e di possedere il potenziale per andare avanti all’infinito, anche se gli indicatori economici russi dicono il contrario, e le nuove sanzioni americane stanno già avendo un impatto pesante sulle esportazioni di petrolio e gas russi in Asia.
