Artrosi alla mano: ecco cosa fare

by azione azione
1 Dicembre 2025

Un approccio multidisciplinare evita interventi non necessari e migliora la qualità della vita

Maria, 67 anni, racconta: «Il dolore al pollice era diventato insopportabile: non riuscivo più ad aprire una bottiglia o a scrivere senza sentire fitte forti. Dopo vari tentativi con tutore e fisioterapia, sono stata operata e, dopo un po’ di riabilitazione, ho recuperato bene: il dolore è sparito, la mano è tornata utile come prima e la mia qualità di vita è migliorata». Ma non tutti i problemi di questo tipo necessitano un intervento chirurgico, e recarsi dallo specialista di chirurgia della mano non significa necessariamente passare subito al bisturi. «La visita dello specialista in chirurgia della mano serve innanzitutto a valutare accuratamente il problema, proporre per cominciare strategie conservative (fisio – ed ergoterapia, tutori, farmaci o modifiche delle attività quotidiane) e pianificare un percorso personalizzato», esordisce il dottor Ivan Tami, specialista in Chirurgia ortopedica e traumatologia, e in Chirurgia della mano. Fondatore del Centro manoegomito (centro di formazione per la chirurgia della mano) all’Ars Medica di Gravesano e Presidente della Società svizzera della sua specialità, spiega: «La chirurgia diventa una delle opzioni, solo se necessaria, nell’ambito di una presa a carico completa».

In questo percorso, il medico di famiglia rimane il coordinatore centrale del paziente, monitora l’evoluzione generale e lo indirizza alle figure specialistiche più adeguate. Il chirurgo della mano, invece, è determinante per garantire una gestione multidisciplinare efficace e personalizzata, integrando competenze altamente specifiche con il supporto di fisioterapisti, ergoterapisti e altri professionisti quando necessario. Al dottor Tami abbiamo chiesto dell’approccio multidisciplinare e personalizzato per chi presenta problematiche di artrosi alle mani, patologia spesso molto invalidante come la testimonianza di Maria ha evidenziato: «Dopo i cinquant’anni è tra le condizioni più diffuse e comuni; può interessare varie articolazioni, in particolare quelle delle dita (le interfalangee) e la base del pollice (rizoartrosi). Ginocchia, colonna e articolazioni delle anche sono le sedi più note; mani, polsi e gomiti possono pure esserne coinvolti». L’avanzare dell’età è un fattore che ne aumenta il rischio, sebbene non sia l’unico: «Esiste una forte componente ereditaria (spesso basta osservare le mani di un genitore per accorgersi della predisposizione) e contano molto anche i lavori manuali ripetitivi, i microtraumi, le fratture pregresse e alcuni squilibri ormonali, soprattutto nelle donne dopo la menopausa». È per questo, spiega, «che un bambino non svilupperà mai artrosi, mentre un adulto o un anziano può andare incontro a un lento processo di “usura” articolare simile ai capelli che imbiancano o alla pelle che si rilassa».

Quindi, non sempre l’artrosi è una malattia in senso stretto, ma è piuttosto parte naturale dell’invecchiamento. Il dolore rimane centrale: «Molte persone presentano segni di artrosi senza avvertire alcun fastidio, altre invece iniziano a notare mani gonfie, rigidità mattutina, difficoltà nei movimenti fini o una progressiva deformazione delle dita». È in questi casi che nasce il sospetto della malattia e si chiede aiuto allo specialista: «Non per l’artrosi “in teoria”, ma per i suoi sintomi che iniziano a incidere sulla vita quotidiana». Contrariamente al luogo comune, prima di ricorrere al bisturi è prioritario il trattamento conservativo: «Si inizia con antinfiammatori in compresse o creme, fisioterapia ed ergoterapia per mantenere mobili le articolazioni e rinforzare la muscolatura, oltre all’uso di tutori che proteggono la mano nelle attività più sollecitanti».

Un capitolo importante riguarda le infiltrazioni, soprattutto di cortisone: «È un farmaco spesso temuto, ma se usato correttamente e senza abusi, è sicuro ed estremamente efficace nel ridurre dolore e infiammazione. Altre opzioni, come acido ialuronico o PRP, restano valutabili caso per caso, anche perché non sempre coperte dall’assicurazione». Quindi, il ricorso alla chirurgia viene proposto solo quando i sintomi diventano limitanti e le terapie conservative non bastano più, «quando dolore, rigidità, gonfiore o perdita di forza rendono difficili i gesti quotidiani, senza sottovalutare il fatto che le deformazioni delle dita (visibili come il volto) creano talvolta disagio anche nelle relazioni». Il dolore resta il criterio decisivo: «Un’articolazione molto deformata ma indolore non è una buona candidata alla chirurgia che, infatti, mira soprattutto a togliere il male, mantenendo la funzionalità presente, senza purtroppo però poter recuperare al 100% ciò che è ormai perso».

Due le grandi categorie degli interventi per l’artrosi della mano: artrodesi (blocco dell’articolazione per eliminare il dolore) e protesi, che sostituisce l’articolazione con un impianto metallico mantenendo una certa mobilità. Tami sottolinea che non tutte le articolazioni possono essere bloccate senza compromettere la funzione, e che la protesi non rappresenta sempre la soluzione migliore: «La scelta dipende da sede, funzione e grado di usura». Prendiamo ad esempio il pollice: «La sua articolazione più distale, quando dolorosa, può essere bloccata senza compromettere la funzionalità. Lo stesso vale per l’articolazione tra falange prossimale e metacarpo, che per natura deve essere stabile. Diverso è il caso della rizoartrosi: qui il pollice compie i movimenti che gli permettono di orientarsi nella mano, quindi la mobilità va preservata e la scelta più indicata è spesso una protesi». Lo stesso principio vale per le dita: «L’articolazione più vicina alla punta può essere bloccata, mentre quelle più prossimali, essenziali per la mobilità fine, sono trattate in modo conservativo o con tecniche che mantengono almeno parte del movimento». Dopo l’intervento si auspica una netta riduzione del dolore, «spesso fino alla sua scomparsa, così da recuperare le attività quotidiane senza limitazioni». La funzionalità viene preservata il più possibile: «Il risultato ideale è un equilibrio tra minore dolore e mobilità sufficiente per una buona qualità di vita».

Come regola generale di riabilitazione post-operatoria Tami indica un percorso di tre mesi: «Nelle prime due settimane si controllano dolore, gonfiore e infiammazione; nelle quattro successive si lavora con l’ergoterapista per recuperare il movimento senza sovraccarichi; a sei settimane si inizia il rinforzo. Dopo tre mesi, in genere, si torna alle attività abituali, spesso meglio di prima. I tempi però variano secondo intervento, paziente e impegno nella riabilitazione, guidata dal terapista che funge da vero “coach” del recupero». Anche in questo campo così specialistico le innovazioni più interessanti oggi non puntano solo a sostituire, bensì a rigenerare i tessuti danneggiati: cartilagine, osso, legamenti e muscoli: «L’idea è preservare l’articolazione, non riempirla di metallo. Stili di vita sani, movimento regolare, alimentazione equilibrata e buon tono muscolare sono già una prima forma di terapia rigenerativa». Allo stesso tempo, la chirurgia ha fatto passi enormi: «Protesi sempre più affidabili, interventi meno invasivi e recuperi rapidissimi permettono di tornare a una vita attiva senza dolore». La collaborazione tra paziente, medico curante e specialista resta decisiva: «Perché oggi, davanti all’artrosi della mano, esistono molte soluzioni concrete per mantenere qualità di vita e funzionalità».