Rappresentazione del non-essere

by azione azione
24 Novembre 2025

Teatro: al LAC è andato in scena il Re Lear di Lavia cha ha saputo mettere a nudo il punto in cui la parola devia, disorienta, sovverte

Prendiamo un grande attore, con una recitazione classica, squisitamente novecentesca, ma di altissimo livello, capace di un’altezza tale da permettergli di incarnare la tragedia, le punte liriche, mescolandole sapientemente con la commedia e le discese più prosaiche; aggiungiamoci una messa in scena possente, una scenografia materica, essenziale ma al contempo capace di una presenza tale da assumere il profilo e la statura del personaggio; e aggiungiamoci un testo enorme, intramontabile, che è una storia di profondo disincanto sulle relazioni umane, sulla sete di potere e su come questa faccia precipitare ruinosamente ogni impianto di tipo etico. Questo è il Re Lear di e con Gabriele Lavia, una coproduzione LAC (insieme a Fondazione Teatro di Roma), che nelle tre sere in cui è stato proposto a Lugano (da mercoledì, anche se non è andato in scena a causa di un malore dello stesso Lavia, a venerdì) ha registrato un enorme successo di pubblico, sfociato – per quanto riguarda l’ultima sera, perlomeno, quella in cui era presente chi scrive – nella standing ovation finale.

La storia è questa: Re Lear decide di dividere il regno fra le sue tre figlie, ma la terza, l’unica autentica, rifiuta di adulare il padre, che quindi la disereda e la mette al bando. Nel frattempo Edmund, figlio illegittimo del conte di Gloucester, per assicurarsi privilegi e terre crea zizzania fra il padre e il fratello, costringendo quest’ultimo a scappare e a riparare nella foresta; i due padri si accorgeranno presto di essere stati ingiusti verso gli unici figli che davvero li amavano.

Il tema più importante che emerge in queste relazioni malate fra padri e figli è quello della parola che circuisce e inganna, accanto a quello del mondo come teatro di inganni e vendette. Una storia di perdite, come sottolinea Lavia stesso, che a Re Lear torna cinquantatré anni dopo, da regista e attore navigato, dopo averlo interpretato nel ruolo di Edgar sotto la regia di Strehler.

Una storia, anche, di equilibri precari, dove tutto precipita facilmente, dove i ricchi diventano poveri e i felici tristi: per questo lo sfondo utilizzato per costruire la narrazione rispecchia quello di un teatro abbandonato, con un gusto un po’ grotowskiano da scena povera, dove la vita è vista come una sequenza di azioni «raccontate da un idiota», per citare un altro grande dramma shakespeariano, il Macbeth. E centrale risulta il ruolo del fool, che giudica, commenta, gioca, ricordando che è tutta una messa in scena, che quello che accade non è davvero importante, che veloce ed eracliteo è il gioco dei ruoli su questa Terra e che la vita è in fondo sogno, teatro in cui le comparse recitano una parte per poi finire dimenticate dal tempo che tutto cancella.

Si scivola, attraverso questo lavoro, che è forte e possente, grazie soprattutto alla recitazione ricca di sfumature, di altezze e discese, di velocizzazioni e rallentamenti di quell’animale da palcoscenico che si conferma ancora Lavia, uno fra i pochissimi in Italia a vantare una tenuta di questo tipo e a portare un teatro di parola classico, vibrante, che pulsa. E grazie a tutto il gruppo di attori, capaci di tenere il ritmo e la temperatura dettata dal maestro – nella squadra vanno sicuramente segnalati per bravura Ian Gualdani, che interpreta magnificamente, con forza e audacia il cinico ma in fondo bisognoso di amore e riconoscimento Edmund, e Andrea Nicolini, straordinario nel ruolo del fool, lo sguardo estraneo e straniante che in realtà interpreta meglio la realtà degli altri.

Una nota di merito anche ai costumi, che giocano un ruolo decisivo nel tratteggiare la scala emotiva di questo testo: dalle tuniche dorate e sfarzose si passa a vesti stracciate fino alle brache, l’unica cosa che copra l’essere umano quando rimane a contatto con la sua verità più essenziale, quella della nuda vita (Agamben). Il Re Lear è un testo dai toni cupi che ci ricorda come le nostre identità si puntellino sui costumi che decidiamo di indossare su quella scena che è la vita.

Dopo l’amletiano quesito, «Essere o non essere», questo dramma si interroga su cosa si basi questo nostro esserci, su quanto tengano i nostri ruoli e su cosa vi sia al di là di essi. «Essere o non essere» sono certamente le parole più importanti di tutto il teatro occidentale» precisa Lavia. «Come se la vita di ogni uomo, non solo di Amleto, non fosse altro che porsi questa domanda. Re Lear, invece, nega questa domanda e decide per il non essere, non essere più re. Nel momento in cui Re Lear non è più re è solo Lear, non è che un uomo, uno come tanti che non conta nulla. “Sono io Lear?”, si domanda disperato. Travolto dalla tempesta del non-essere, Lear la attraverserà fino alla fine, fino all’ultimo dolore».

Una messa in scena davvero magistrale, che avrebbe potuto benissimo aprire la stagione teatrale del LAC. E la dimostrazione che un certo teatro classico, se fatto ad altissimi livelli e quando non teme il confronto con la lirica e la tragedia, può diventare addirittura popolare.