Podcast: nella sua ricerca Taty Rossi ripercorre la storia di un popolo che in Svizzera fu lungamente perseguitato
Che la Svizzera sia assurta agli onori della cronaca più di una volta per questioni non necessariamente destinate a farle onore (soprattutto alla luce del fatto di essere sede di grandi istituzioni come la Croce Rossa) è cosa ormai nota che ha acceso i dibattiti degli ultimi anni. Si è discusso degli affidamenti coatti, dei figli illegittimi sottratti alle madri, delle schedature e, più recentemente anche di abusi in ambito ecclesiastico. Una serie di modalità di controllo – che poi si trasformano in sopraffazione – da parte dello stato e della chiesa che hanno pregiudicato i destini di centinaia di migliaia di cittadine e cittadini svizzeri, come dimostrano le cause e il dibattito pubblico ancora in corso.
Gli «obiettivi» di chi intendeva in qualche modo correggere quelle che reputava devianze sociali, erano di creare una società libera da realtà considerate scomode, per non dire fastidiose o addirittura moleste, dando seguito a un desiderio di «rieducazione» – che però a volte finiva per trasformarsi in eliminazione.
Fra chi si trovava a essere indesiderato dal «potere», vi erano anche gli Jenisch, nomadi che in Svizzera si spostavano a piedi o a bordo di carrozzoni di legno, affilando coltelli e realizzando cesti (come si può vedere da alcune immagini in rete), per entità secondi ai Rom e ai Sinti. Si calcola che in Svizzera vivano circa 35’000 Jenisch, la cui discendenza è germanica – hanno anche un proprio idioma – a differenza di Sinti e Rom la cui origine è situata in India.
Un po’ come chi viveva in povertà (in Svizzera esisteva la Armenpolizei, polizia dei poveri, ndr), aveva un figlio illegittimo, era divorziato o semplicemente si trovava in difficoltà , anche gli Jenisch – vuoi per il loro nomadismo, vuoi per la loro diversa appartenenza etnica – furono vittime di sottrazione dei propri figli. Ciò avvenne all’interno del programma «Kinder der Landstrasse» (I bambini della strada) lanciato nel 1926 da Alfred Siegfried attraverso Pro Juventute e sostenuto dalla Confederazione secondo una strategia ufficiale molto chiara: «Chi vuole combattere con successo il vagabondaggio, deve cercare di rompere i legami del popolo nomade e, per quanto duro ciò possa sembrare, deve distruggere la comunità famigliare. Un altro modo non c’è». Ed è proprio lì che nasce il recente podcast di Taty Rossi, Mamera (in lingua Jenisch «mamma»), nel quale in sette puntate l’autrice ripercorre le vicende umane di chi quella «campagna» la subì, partendo dal desiderio di «raccontare le storie che restano nell’ombra».
Al fine di ricostruire un capitolo buio della storia recente del nostro Paese, Taty Rossi si affida da una parte alla testimonianza diretta offerta da Uschi Waser, sottratta alla famiglia d’origine per essere collocata in contesti drammatici e contraddistinti dall’abuso, dove violenza e umiliazione erano spesso all’ordine del giorno, dall’altra a interventi di esperti come il professore e storico Emmanuel Betta, che contestualizza un fenomeno che si ispirava alle teorie di eugenetica molto in voga all’inizio del secolo scorso e adottate un po’ ovunque, o Ermete Gauro, ex presidente della Commissione Cantonale Nomadi in Ticino e Paolo Bernasconi, allora membro del consiglio di Fondazione di Pro Juventute, chiamato a scusarsi pubblicamente nel 1973. Ampio spazio è dedicato anche alla più importante esponente culturale del popolo Jenisch in Svizzera, la poetessa e scrittrice Mariella Mehr, scomparsa nel 2022 e sempre in prima linea nel lungo e faticoso processo di denuncia dell’operazione «Kinder der Landstrasse».
Nel suo lavoro Taty Rossi, cresciuta a Milano e di origine eritrea, riesce, con delicatezza e sensibilità , a tracciare dei parallelismi fra quanto avvenuto agli Jenisch in Svizzera e ciò che, quotidianamente ancora oggi, si ritrova a vivere chi ha un background riconoscibile, evidenziando forme di discriminazione più sottili e forse meno strutturate, ma non per questo meno dolorose e umilianti. Il podcast, prodotto da Associazione REC, offre dunque un viaggio alle nostre latitudini in parte ancora inedito attraverso quello che fu un triste capitolo della storia del Novecento del Paese. Il montaggio di Agnese Là posi, supportato dal sound design di Victor Hugo Fumagalli, in cui si alternano voci di protagonisti ed esperti alle considerazioni dell’autrice su questioni etiche presenti anche ai giorni nostri, stimola la curiosità dell’ascoltatore, che vorrebbe conoscere ancora più a fondo la vicenda di un popolo lungamente maltrattato. Un approfondimento possibile, una volta terminato l’ascolto, sulle numerose pubblicazioni (disponibili anche in internet) uscite negli anni intorno all’argomento.
